Pietro Patti, 27 febbraio 1985

Ucciso dalla mafia sotto gli occhi delle figlie. Qualche giorno prima, il 23 febbraio, un altro imprenditore palermitano era stato vittima di un agguato. Si trattava di Roberto Parisi, presidente del Palermo Calcio e vicepresidente di Sicindustria. La mafia aveva alzato il tiro

In copertina: Pietro Patti, l’imprenditore ucciso dalla mafia il 27 febbraio 1985

Alessandra non potrà mai dimenticare quel giorno. Aveva diciassette anni, quel 27 febbraio del 1985. Erano circa le 8:20 del mattino e, con le sorelle Gaia di nove anni, Francesca di sei e Raffaella di quattordici, era a bordo della Fiat 127 guidata dal padre, Pietro Patti. Le stava accompagnando in auto, come di consuetudine, all’Istituto delle Ancelle del Sacro Cuore, in via Marchese Ugo, nel centro di Palermo. Di fianco a lui, sedeva Gaia. Dal sedile posteriore in cui si trovava, come in un brutto film, Alessandra ha visto scorrere davanti a sé le tremende immagini: un uomo che si avvicinava all’auto e, freddamente, puntava la pistola alla tempia di Pietro Patti e premeva tre volte il grilletto della sua calibro 38. I primi due colpi centrarono il volto di Patti mentre un terzo, rimbalzando sulla sua mandibola, si conficcò nel torace di Gaia, mandando in frantumi la sesta costola le cui schegge si conficcano nel polmone. Alessandra e le altre due sorelle rimasero ferme, in preda al terrore. Il padre non dava più segni di vita mentre la sorella perdeva sangue e si disperava dal dolore.

Pietro Patti era un imprenditore affermato. Si occupava di lavorazione della frutta secca e i suoi prodotti, mandorle, nocciole e pistacchi, venivano spediti in tutto il mondo. Qualche giorno prima, il 23 febbraio, un altro imprenditore palermitano era stato vittima di un agguato. Si trattava di Roberto Parisi, presidente del Palermo Calcio e vicepresidente di Sicindustria. Oltre a lui, nell’agguato, morì anche il suo autista Giuseppe Mangano. La mafia aveva alzato il tiro. Pietro Patti era già stato vittima di avvertimenti da parte della mafia. Nel corso degli ultimi due anni, un ordigno era stato fatto esplodere nel suo stabilimento di Brancaccio. Lo scopo, evidentemente intimidatorio, era quello di convincerlo a pagare il pizzo richiesto. Pietro Patti decide di rimanere un uomo onesto e, quindi, di continuare a non pagare. Dopo poco tempo, rimane vittima di un altro attentato che gli fa esplodere l’auto. Poi arrivò la telefonata “Non faccia il furbo, ingegnere. Non ha scampo: deve pagare mezzo miliardo. E ricordi, le abbiamo distrutto capannone e macchina, ma questa volta le faremo saltare il cervello”.

Alessandra Patti, la figlia maggiore di Pietro, nel 1993 diventa dottore in Scienze Politiche presentando la sua tesi di laurea sull’assassinio del padre. Grazie al supporto della madre e del professor Salvatore Costantino, suo relatore e docente di Sociologia della Cultura, ha deciso di affrontare non tanto gli aspetti legali/criminali dell’assassinio dell’imprenditore palermitano, ma di analizzare il modo e il metodo con cui i giornalisti, all’epoca, trattarono l’assassinio del padre. “Soprattutto – affermò Alessandra Patti alla stampa in quell’occasione – il modo in cui i giornalisti locali sono entrati dentro la notizia, con metodi logori, con uno stile vecchio, che ricalcava il giornalismo della cronaca nera”.

Pietro Patti fu ucciso dalla mafia il 27 febbraio 1985. Aveva 47 anni. Lasciò la moglie Angela Pizzolo e le quattro figlie Gaia, Francesca, Raffaella e Alessandra, che lo videro morire sotto i loro occhi.

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