Una nuova Medicina del territorio

La pandemia da Covid-19 ha fatto emergere limiti e fragilità del nostro Sistema Sanitario Nazionale (SSN), sia a livello centrale (ospedaliero) che a livello periferico (Medicina del territorio). Ma la pandemia ha portato alla ribalta anche altri elementi cruciali. La delega dell’assistenza sanitaria alle Regioni ha creato - e continua a creare - problemi durante questa pandemia e ha anche accentuato le differenze relative all’accesso e all’equità delle cure

di Franca Regina Parizzi

La pandemia da Covid-19 ha fatto emergere limiti e fragilità del nostro Sistema Sanitario Nazionale (SSN), sia a livello centrale (ospedaliero) che a livello periferico (Medicina del territorio).

Le Terapie Intensive e i reparti ospedalieri sovraffollati, la conversione in reparti Covid di molti reparti di degenza deputati a curare altre patologie, e degli stessi medici e infermieri che vi operano, lo stress del personale ospedaliero, sono stati abbondantemente documentati dai mass media e dai social network. Tuttavia si è andato sempre più evidenziando come il punto debole nello scenario pandemico sia quello della Medicina del territorio, il cui cardine è certamente la Medicina Generale.

I Medici di Medicina Generale (MMG) e i Pediatri di Libera Scelta (PLS), le figure professionali più vicine ai pazienti, competenti dei loro contesti di vita e dei loro bisogni, si sono ritrovati soli, con la difficoltà di interagire (sia tra di loro che con i colleghi ospedalieri), in assenza di linee guida o protocolli diagnostico-terapeutici. Per molto tempo anche privi di dispositivi di protezione individuale, pagando in troppi casi con la vita l’esercizio della professione.

La necessità di trovare risposte alle richieste dei pazienti, di condividere percorsi di cura, di aggiornare costantemente le proprie conoscenze sulla base delle ricerche e osservazioni scientifiche sul Covid-19 quotidianamente pubblicate (aggiornamento che presuppone un tempo dedicato non indifferente), è stato il motore alla costituzione di un gruppo Facebook (Coronavirus, SARS-Cov-2 e Covid-19 gruppo per soli medici), di cui fanno parte circa 100.000 medici. Testimonianza di quanto sia percepita la necessità di uscire da una solitudine professionale, di confrontarsi, di condividere, al fine di agire al meglio.

Ma la pandemia ha portato alla ribalta anche altri elementi cruciali. La delega dell’assistenza sanitaria alle Regioni ha creato – e continua a creare – problemi durante questa pandemia e ha anche accentuato le differenze relative all’accesso e all’equità delle cure. Lo Stato stabilisce i livelli essenziali delle prestazioni (LEA: Livelli Essenziali di Assistenza), che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, ma spetta alle Regioni l’organizzazione dell’erogazione sia dei LEA che di eventuali ulteriori livelli.

E le differenze tra le Regioni sono ampie e, più il tempo passa, più si possono ampliare, sia in termini di sostenibilità che di equità. Sarebbe pertanto opportuna una profonda revisione delle competenze e decisionalità regionali in campo sanitario.

Se la pandemia ha portato alla ribalta politica la crisi della Medicina territoriale (cioè delle così dette “Cure Primarie”), i segnali di questa crisi erano tuttavia già evidenti prima. Il sovraffollamento dei Pronto Soccorso ospedalieri per patologie banali è un fenomeno che è andato crescendo a dismisura negli ultimi vent’anni. Attribuire la colpa di questo fenomeno all’incapacità da parte dei cittadini di oggi di accettare e autogestire la malattia o alla mancata disponibilità e capacità di risposta da parte dei medici di Medicina generale o di Guardia medica, sono tutte motivazioni superficiali, scorrette, che non fanno che alimentare un conflitto tra medici e pazienti e tra medici ospedalieri e medici del territorio. Quando è invece “il sistema” che va cambiato, soprattutto la Medicina territoriale.

Le cure primarie hanno mostrato limiti già prima dell’impatto della pandemia a causa dei cambiamenti demografici (aumento della popolazione in età avanzata), dell’emergenza di bisogni di salute complessi (malattie croniche) e di un generale aumento della richiesta di salute da parte della popolazione. La cura di una popolazione in gran parte anziana, con patologie croniche, spesso in condizioni di isolamento per ridotte reti familiari, richiede un sistema assistenziale profondamente diverso da quello attuale. L’introduzione di un’assistenza domiciliare “integrata” o “programmata”, la possibilità di effettuare le cure palliative anche a domicilio, la gestione integrata di alcune patologie (come il diabete mellito), la realizzazione di “Case della Salute” sono innovazioni realizzate ed efficienti solo in alcuni territori e in alcune regioni, mentre è molto diffusa la carenza di figure assistenziali attive capillarmente.

Non è più il tempo di un unico punto di riferimento sanitario (il Medico di Medicina Generale), ma è necessario e urgente un sistema basato su équipe di diversi professionisti (medici, infermieri di comunità, fisioterapisti, altri terapisti, psicologi, assistenti sociali, ecc.), che garantiscano un’assistenza h24, che operino fuori dagli ospedali, dalle cliniche e dai centri diagnostici, che collaborino costantemente, non occasionalmente, per la “cura” dei pazienti. Occorre creare le basi, non solo tecnologiche (fascicolo sanitario elettronico), per un lavoro di squadra e di parità con i medici ospedalieri.

In Italia il medico di Medicina generale non è realmente integrato all’interno della rete assistenziale per molte ragioni, ma soprattutto per lo status di libero professionista convenzionato. Il passaggio da questo status a quello di dipendente del SSN rappresenta solo un primo passo, ma non è più procrastinabile. Ma è anche il ruolo dei Distretti Socio-Sanitari che deve essere profondamente modificato: i distretti devono essere ri-progettati come organizzazioni professionali con precisi obiettivi di salute, non come le istituzioni burocratiche che sono oggi.

Sono disponibili e ampiamente utilizzati strumenti per valutare la performance dei medici ospedalieri (DRG, questionari di verifica e revisione della qualità dell’assistenza erogata, questionari del grado di soddisfazione dei pazienti, ecc.), mentre laperformance dei MMG e dei PLS,sia in termini quantitativi che qualitativi, non viene valutata. La valutazione invece sarebbe necessaria perché senza valutazione non si ha l’opportunità di misurare l’efficienza di un servizio offerto ai cittadini, e perché senza valutazione non si migliora. La valutazione non deve essere legata solo all’incentivazione economica, occorre essere valutati per migliorare, l’apprendimento passa anche dal riconoscere gli errori e dal confronto tra professionalità. Occorre che le buone prassi si diffondano e le buone prassi si conoscono solo se si valutano le attività e i risultati.

Lavorare da soli è frustrante e demotivante per i professionisti (MMG, PLS e in genere ogni operatore del territorio) e non soddisfa neppure i pazienti. Nessun medico di Medicina Generale, neanche il più appassionato, volenteroso e competente, potrà mai prendere in carico efficacemente i bisogni della popolazione assistita se non è funzionalmente – e a pieno titolo – inserito in una rete interprofessionale e intersettoriale della quale sia, e si senta, integralmente parte. Il problema principale dei medici di Medicina generale è proprio quello di coordinarsi con tutti gli altri attori del sistema. Il coordinamento non è ovvio e naturale, ma è frutto di un’organizzazione che funziona: di leader che sanno dare indicazioni, programmare, progettare, di sistemi di passaggio rapido di informazioni, di procedure “provate sul campo”, di scambi di esperienze, consigli, linee guida, di progetti verificati e diffusi e di molto altro.

La crisi della Medicina generale è complessa e profonda: culturale, organizzativa e scientifica.

Le forme associative tra MMG e PLS sono state realizzate in pochi casi, con modalità diverse e disomogenee e certamente non sono realizzabili nelle zone disagiate. E’ necessario trovare modelli, infrastrutture e strumenti per creare organizzazioni territoriali multi-professionali (medici, infermieri, assistenti sociali, psicologi, ecc.) che lavorano insieme, che si coordinano, che hanno obiettivi comuni, che condividono spazi e strumenti, che hanno modalità di lavoro e tecnologie di supporto comuni, che vanno a casa del paziente quando necessario.

Un gruppo indipendente di professionisti nel campo della salute, provenienti da varie Regioni, sulla base di modelli già esistenti di Cure Primarie nel mondo,  due anni fa ha avviato la campagna “2018 Primary Health Care Now or Never”: per garantire la salute come diritto e quindi la sostenibilità dei Servizio Sanitario Nazionale nel XXI secolo, è necessario adottare un modello di Cure Primarie (definito dalla letteratura Comprehensive Primary Health Care, C-PHC) centrato sulla persona, sulle sue reti familiari, di relazioni prossimali e orientato alla comunità.

Occorre dunque un sistema di cure primarie centrato sulla persona. Anche se in qualche Regione si sono messi in atto processi di ri-organizzazione virtuosi delle cure primarie, il cambiamento culturale, nella mentalità degli operatori, degli utenti e nelle pratiche di salute, è difficile e richiede tempo. Si tratta di un cambiamento radicale, che sposta il focus del Servizio Sanitario da un modello ospedalo-centrico a un modello basato sulle cure primarie territoriali.

Un altro aspetto importante è la formazione dei MMG. Per esercitare la professione di Medico di Medicina Generale è necessario il diploma di formazione specifica in Medicina generale, che si acquisisce con un corso post-laurea della durata di tre anni, non gestito dall’Università (pertanto non controllato e valutato in termini qualitativi secondo parametri internazionali), ma dalle singole Regioni, seguito dalla partecipazione ai concorsi per l’inserimento nelle graduatorie regionali. Per i PLS è invece necessario il diploma di specializzazione (universitaria) in Pediatria.

Una scuola di specializzazione universitaria in Medicina generale permetterebbe una migliore formazione dei futuri medici di Medicina generale, darebbe maggior dignità alla professione e al ruolo del MMG, potrebbe gettare le basi e incentivare un sistema organizzato di ricerca clinica nel settore delle cure primarie (che attualmente non esiste), e infine gestire l’aggiornamento e la formazione continua.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) prevede un generico rafforzamento della “assistenza di prossimità diffusa nel territorio e cure primarie e intermedie”. Si parla di Case della salute, di telemedicina, di aggiornamento del parco tecnologico, di fascicolo sanitario elettronico.

Quanto alla telemedicina, cioè l’insieme di tecniche mediche e informatiche che permettono la cura di un paziente a distanza, e più in generale di fornire servizi sanitari a distanza, è certamente uno strumento di lavoro fondamentale. Già durante la pandemia i MMG e i PLS hanno modificato profondamente il loro lavoro, utilizzando vari metodi da remoto (telefono, Whatsapp, videochiamate, piattaforme web, Skype) e la dematerializzazione della ricetta elettronica nei confronti delle farmacie ha permesso ai pazienti di non recarsi in studio per il ritiro e di evitare il rischio di contagio, e ai medici di risparmiare tempo di lavoro.  

La pandemia ha messo in crisi il nostro Sistema Sanitario Nazionale, sia a livello ospedaliero che territoriale. Un sistema di cui andavamo fieri a livello internazionale, ma che ha mostrato tutte le sue debolezze. Oltre a un necessario potenziamento dell’offerta di assistenza ospedaliera, è indispensabile una revisione radicale delle Cure primarie, basata sul lavoro di squadra e l’integrazione fra i diversi operatori che ne fanno parte, su una rete assistenziale capillare, attiva h24, sulla condivisione di obiettivi e piani di lavoro centrati sul paziente e sulla comunità.

Informazioni su Franca Regina Parizzi 27 Articoli
Nata a Milano il 15.12.1947, ha conseguito la laurea in Medicina e Chirurgia nel 1972 presso l’Università degli Studi di Milano con voti 110/110 e lode. Nel 1974 è stata assunta presso l’Ospedale San Gerardo di Monza, inizialmente come Assistente nel Reparto di Malattie Infettive e successivamente, dal 1980, nel Reparto di Pediatria, divenuto nel 1983 sede della Clinica Pediatrica dell’Università degli Studi di Milano Bicocca, ove ha ricoperto successivamente (dal 1988) il ruolo di Aiuto Corresponsabile Ospedaliero, e, dal 2000, di Dirigente Medico con incarico di Alta Specializzazione. Ha conseguito la Specializzazione in Malattie Infettive e successivamente in Chemioterapia, entrambe presso l’Università degli Studi di Milano. Nel 1977 e 1978 è stata responsabile del Reparto di Pediatria presso l’Hôpital Général de Kamsar (République de Guinée – Afrique de l’Ouest) nell’ambito della Cooperazione Tecnica con i Paesi in via di sviluppo del Ministero degli Affari Esteri italiano. Autrice di numerose pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali e internazionali e relatrice in diversi convegni (nazionali e internazionali). Dal 2010 si è trasferita da Monza a Lampedusa, isola alla quale è profondamente legata, dove esercita tuttora la sua attività come pediatra.

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