Una svolta irreversibile, dai diritti universali ai governi di “salute pubblica”

I generici appelli che unendo le forze possa tornare tutto come prima, come se fossimo tutti “sulla stessa barca”, sono immediatamente smentiti dai fatti. Non esiste vera solidarietà a livello globale, dove imperversa ancora una guerra economica, l’UE sta andando in pezzi per gli egoismi dei singoli stati membri, le Regioni sembrano spingere in tante direzioni diverse, non manca neppure il protagonismo dei sindaci

di Fulvio Vassallo Paleologo

Sono ancora incerti i tempi del raggiungimento del picco della pandemia da COVID-19. Nessuno conosce il costo finale che si dovrà pagare in termini di vite umane, e quali saranno le ricadute economiche e sociali a livello nazionale e su scala globale. Sembra tuttavia generalmente condivisa, anche tra la comunità scientifica e i massimi organismi sanitari (OMS) la consapevolezza che questa pandemia potrà durare ancora a lungo, estendersi in tutti i paesi del mondo, ed avere anche fasi di ritorno, ammesso che si arrivi ad un suo primo superamento. Le prospettive di cura e la soluzione del vaccino appaiono ancora assai lontane, e potrebbe sempre verificarsi la mutazione del virus o la irruzione di altre pandemie estese su scala globale. La mobilità umana globale basata sulla libertà di autodeterminazione appare ormai un lontano ricordo, mentre si profilano nuove migrazioni forzate e nuovi sistemi di confinamento.

I generici appelli che unendo le forze possa tornare tutto come prima, come se fossimo tutti “sulla stessa barca”, sono immediatamente smentiti dai fatti. Non esiste vera solidarietà a livello globale, dove imperversa ancora una guerra economica, l’Unione Europea sta andando in pezzi per gli egoismi dei singoli stati membri, a livello nazionale le Regioni sembrano spingere in tante direzioni diverse, non manca neppure il protagonismo dei sindaci. La concorrenza tra i diversi territori diventerà più feroce quando ci saranno da redistribuire i costi della crisi economica, già grave per effetto dei fallimenti del neo-liberismo globale, ma resa irreversibile, soprattutto nelle aree economiche più deboli, dalle conseguenze economiche del COVID-19.

Anche se la crisi sanitaria dovesse essere risolta, o attenuata in un singolo paese, si può prevedere che si moltiplicheranno le frontiere ed i confinamenti. Apparati di sicurezza sempre più invasivi saranno destinati a limitare la mobilità umana, come sta succedendo da tempo in Cina, e come progressivamente si verificherà nel resto del mondo, seppure con modalità diverse, anche al fine di garantire la “salute pubblica” impedendo i cd “casi di infezione di ritorno”. In diversi paesi del mondo si profila un inquietante scontro tra la “salute pubblica”, di cui rimangono depositari i governi con i loro poteri di emergenza e i diritti fondamentali individuali, incluso il diritto individuale alla salute, che nel modello delle grandi Costituzioni dovrebbero spettare a tutte le persone, indipendentemente dalla cittadinanza, dall’età, o dal reddito di cui dispongono.

Le prime soluzioni di “uscita” dalla fase attuale di pandemia che si profilano sui mezzi di informazione comprendono un ritorno forzato al lavoro delle generazioni più giovani, che si ritiene più resistenti al virus (almeno fino ai 50 anni) ed un confinamento forzato a tempo indeterminato, e comunque in modo ricorrente se l’epidemia dovesse ripresentarsi, di tutti coloro che hanno raggiunto i 65 anni di età. Persone che in molti casi sono ancora nel mondo del lavoro, o svolgono importanti funzioni di progettazione e di consulenza. Si profilano dunque nuove barriere d’età che potrebbero alimentare isolamento sociale e conflitto tra generazioni. Saranno forse gli studi epidemiologici, a stabilire tra qualche anno quanto giovano queste misure, parziali e mirate a specifici target, di contenimento della libertà di circolazione.

Forme diverse di confinamento saranno poi imposte alla forza lavoro migrante schiacciata in condizioni di irregolarità e di sfruttamento, ed a tutti coloro che, per disabilità o malattie croniche, fossero considerati come un pericolo per la “salute pubblica”. Un concetto che viene definito in base ai rapporti di forza tra il potere politico ed i grandi gruppi economici. Piuttosto che ripristinare un sistema sanitario pubblico capace di rispondere alla accresciuta domanda di cura, si orienteranno le risorse verso investimenti ancora basati sullo sfruttamento lavorativo e sulla speculazione finanziaria, oltre che sull’inasprimento dei sistemi di controllo, dai droni alle intercettazioni.

Gli aiuti dello Stato centrale per il mantenimento di un minimo “welfare“, ammesso che vengano effettivamente erogati, saranno necessariamente redistribuiti in forma di tasse, o di riduzione di stipendi e pensioni a carico dei ceti medi, decretandone la progressiva scomparsa, con un appiattimento verso il basso del livello generale di vita, salvo poche aree di privilegio, riservate alla rendita o all’economia criminale. I consumi e le aree di profitto verso cui si orienterà il mercato riguarderanno il sistema sanitario, il circuito alimentare, tutto quanto serve a soddisfare i bisogni primari, con il mantenimento delle nicchie di beni di lusso riservati a pochi privilegiati. Di fronte ad una disoccupazione devastante la diminuzione di capitale circolante e le difficoltà di accesso al credito determineranno il sovraindebitamento dei bilanci familiari, fallimenti a catena nell’economia e la imposizione di limiti alla libertà di circolazione delle persone, su scala nazionale, europea e globale. Senza misure di equa socializzazione del debito pubblico l’emissione di moneta circolante potrebbe alimentare l’inflazione, soprattutto se singoli paesi membri dell’UE dovessero abbandonare la politica europea comune e la moneta unica.

Il sistema pensionistico sarà messo in crisi dalla caduta dei contributi e solo vaste regolarizzazioni, incluse quelle dei lavoratori stranieri privi di permesso di soggiorno, potranno consentire un parziale recupero. Si può comunque prevedere, come già successo in Grecia, con una diffusa disoccupazione, una crescita degli oneri sociali e tagli dal 20 al 40 per cento degli assegni pensionistici. Questo, e non altro, significa “economia di guerra”.

Le frontiere nell’era del virus globale

Il concetto di frontiera, dopo anni di esternalizzazione ( fallita), fulcro delle politiche europee ed italiane, appare destinato a mutare profondamente. E’ finita l’era della collaborazione tra gli Stati terzi e l’Unione Europea, ammesso che se ne possa ancora parlare come di un soggetto unitario, e ciascun Paese si avvarrà delle proprie leggi e delle proprie forze armate per impedire che dall’esterno possano farvi ingresso soggetti indesiderati, potenzialmente portatori di una infezione che su scala globale non appare destinata ad esaurirsi definitivamente nei prossimi anni. Si stanno moltiplicando veri e propri campi di concentramento. Lo scempio dei diritti umani, dei corpi e delle vite delle persone schiacciate ai confini, sulla rotta balcanica, alla frontiera dell’Evrosnelle acque dell’Egeo e nei campi di detenzione in Libia, un paese ancora in preda alla guerra civile, come sulla rotta del Mediterraneo centrale, segna il punto di non ritorno della politica di esternalizzazione portata avanti da almeno quindici anni dall’Unione Europea. Una politica alla quale nel tempo hanno contribuito tutti i diversi governi italiani e che ancora oggi sembra l’unica politica di controllo dei confini concretamente praticabile. Adesso anche in nome della difesa della “salute pubblica”. Una politica che segna tragicamente la fine dell’Unione Europea.

Gli immigrati, che ancora rappresentano un gruppo sociale relativamente giovane e ad alta prolificità, aumenteranno comunque, in Italia e negli altri Paesi europei, malgrado la negazione stanziale di diritto alla protezione internazionale, con buona pace dei sovranisti che temono la cosiddetta “sostituzione etnica”. Il moltiplicarsi delle frontiere esterne ed interne, rendendo illegale la mobilità non consentita dallo Stato, li condannerà però ad una irreversibile inferiorizzazione, ad un confinamento territoriale senza scampo, con vaste sacche di criminalizzazione, ed un conseguente aumento dei campi di detenzione e dei procedimenti penali a loro carico. A tutto vantaggio dei partiti xenofobi e populisti. L’istituzione carceraria diventerà gestibile solo ricorrendo a modelli fortemente autoritari.

I diritti fondamentali sanciti dal diritto internazionale e dai Trattati dell’Unione Europea, o dalla Convenzione a salvaguardia dei diritti umani del Consiglio d’Europa appaiono consegnati ad una tragica ineffettività, per l’affermarsi delle istanze sovraniste, mentre diventa evanescente il ruolo della Corte europea dei diritti dell’Uomo soffocata dalle pressioni dei governi e dagli ostacoli burocratici che si frappongono per un accesso immediato alla tutela dei diritti.

La libertà discrezionale di circolazione

La libertà di circolazione verrà fortemente ridotta anche per i cittadini europei, in base all’età, alla condizione sociale, allo stato di salute, salvo la eccezione delle “esigenze lavorative” imposte dagli accordi tra i governi, le grandi corporazioni industriali e commerciali, le centrali sindacali. Ammesso che questa pandemia venga sconfitta, le medesime misure limitative della libertà personale sperimentate in questa occasione si riproporranno alla prossima pandemia. Saremo tutti, ormai, in un regime di libertà vigilata, una vigilanza imposta dalla finalità prevalente di garantire la salute pubblica. Dal tracciamento degli spostamenti si passerà al controllo delle informazioni ed alla individuazione dei soggetti che non si conformano alle regole coercitive imposte dai governi. Molti si ammaleranno, non per il COVID-19, ma per lo stato di depressione indotto dalla privazione della libertà di circolazione e dunque per la mancanza di un progetto di vita che valga davvero la pena di essere realizzato e vissuto.

Lo scenario che si prospetta dunque, nell’immediato, ma anche nel lungo periodo, è uno scenario fortemente conflittuale che sarà dominato da logiche di forza, imposte magari in nome di una astratta tutela della “sanità pubblica”. L’odio sociale aizzato per anni dalle destre, e sperimentato contro i migranti e le ONG, appare solo sopito in un momento di forte scombussolamento per il numero imponente di vittime della pandemia. Ma appena si tornerà alla competizione elettorale avrà un potenziale ancora più alto e spaccherà trasversalmente l’intero corpo sociale.

Certamente una parte della popolazione, le associazioni non governative, le componenti progressiste della Chiesa, si continueranno a battere per un sistema più solidale, più giusto in termini redistributivi, per una economia sostenibile rispettosa dell’ambiente e contro lo sfruttamento delle persone. Una sfida che oggi appare quasi impossibile, e che si è materializzata nella solitaria preghiera del Papa in piazza San Pietro, mentre i potenti del mondo facevano i loro calcoli elettorali, o restringevano gli spazi di libertà, giocando sulle conseguenze della pandemia da COVID-19. Una sfida alla quale non ci sottrarremo, anche utilizzando le esperienze di lotta di quelli che oggi si vorrebbero emarginare perché troppo vecchi, ma nella quale occorre aver consapevolezza dei fatti, piuttosto che ostinarsi ancora a sperare che un diverso modo di vivere, più giusto, possa venire dai governi, magari sulla base dei generici appelli alla solidarietà ed all’unità nazionale che oggi provengono da più parti.

In tempo di “guerra” come quello che dicono che stiamo vivendo, i diritti non si difendono con il conformismo, altrimenti si perdono. Nella guerra (vera), persino nella guerra civile, il ruolo del nemico è più visibile, in questo stato di emergenza che si avvia ad essere permanente, il nemico è polverizzato in una miriade di interessi che cercano di trarre profitto dalla diffusione del COVID-19. Per questo, oltre alla generica solidarietà, occorre prepararsi a vivere un tempo, anche lungo, di conflitto sociale. Un tempo che, per molti, già avanti negli anni, sarà tutta la vita che resta.

I terreni di impegno non mancano, dai campi sconfinati della ricerca scientifica al vasto settore della istruzione pubblica, dalle realtà territoriali nelle quali vanno implementate dal basso tutte le possibili forme di solidarietà, ai percorsi di inclusione e solidarietà con la popolazione migrante. Perché saremo tutti “migranti”, anche se costretti a restare confinati in un territorio delimitato. Saremo costretti a “migrare” dalle nostre vite, quelle di prima, verso qualcosa che oggi non possiamo neppure prevedere. Se non sarà possibile recuperare la libertà di circolazione che avevano in passato, sarà decisiva la verifica giurisdizionale delle misure amministrative che impongono confinamenti e la salvaguardia del libero pensiero. Perché, dopo averci privato della libertà di riunione, qualcuno potrebbe tentare di comprimere anche il diritto all’informazione. Dovremo davvero scavalcare tanti muri di frontiera, tanto filo spinato, tutti i giorni.

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