Un Falcone va bene su tutto!

Il prossimo mercoledì ricorre il venticinquennale della strage di via d’Amelio in cui morirono Paolo Borsellino, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Non un uomo dello Stato, ma sei. E di essi dovettero raccogliere i brandelli e catalogarli. Paolo Borsellino venne dilaniato dall’esplosione come gli agenti della sua scorta. Nessuno degli agenti di polizia vorrebbe dover ricordare l’immagine dei suoi colleghi in quelle condizioni. Ci si attende un’altra giornata di insulsa retorica. Magari in forma ridotta, visto che per comodità dello showbusiness qualcuno ha pensato che “Falcone e Borsellino” si pronunciano come una parola sola e che il venticinquennale delle stragi si potevano accorpare in una data unica – quella della prima tra le due stragi del ’92 – così da mettere in piedi uno spettacolo più “spettacolare”. Tra i due magistrati, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e gli agenti delle rispettive scorte da sempre ricordati soltanto come “…e gli agenti della scorta”, c’è una differenza che non possiamo fingere di non vedere. Il simbolo della lotta alla mafia prescelto, per inspiegabili ragioni, è Giovanni Falcone. Al massimo è “Falcone e Borsellino”. Forse è più utile mettere in secondo piano la strage avvenuta appena due mesi dopo quella che distrusse duecento metri di autostrada. Magari proprio perché quella del 19 luglio provocò ancora più dolore, essendo questa non accompagnata dal falso stupore che avvolse quella del 23 maggio 1992. Da quel giorno di maggio di venticinque anni fa, Giovanni Falcone è un nome che va bene ovunque ed in tutte le salse. Nemici del magistrato si accreditarono quali suoi fedeli amici ed anche allievi, la sciasciana antimafia lo elesse simbolo delle proprie apparenti missioni, il merchandising antimafioso ne fece l’immagine della Palermo e della Sicilia che lotta. Della Sicilia adesso buona e non più legata al retaggio culturale che portò Cosa Nostra a simili gesta nella più completa passiva collaborazione da parte del popolino. Infine, Giovanni Falcone è oggi talmente utile ad una certa classe dirigente da divenire paravento anche per le inottemperanze locali. Così l’atto vandalico che un paio di notti addietro consegna il suo busto distrutto in una scuola del quartiere Zen diventa una notizia di respiro nazionale. A questa azione vengono attribuiti, con la più audace dietrologia mafiologica, innumerevoli possibili interpretazioni del pensiero mafioso e dei messaggi che Cosa Nostra vuole così inviare allo Stato. Comodo. Un po’ meno entusiasmante è invece l’analisi della condizione sociale intorno alla scuola del misfatto. Un istituto che subisce più di una incursione vandalica all’anno. Che di anno in anno si trova a dover ricomprare i computer della auletta informatica piuttosto che le attrezzature di qualunque altro laboratorio con cui essa rende lo studio, l’attività didattica, più interessante anche per quei ragazzi le cui famiglie sono ancora oggi – nel 2017 – disadattate e fortemente legate alla cultura di un quartiere progettato da menti deliranti e disegnato con architettura degna del peggior nazifascismo. Nel ghetto dello “Zen 2” non c’è nulla. Non sono state previste aree commerciali, culturali, ludiche. Nello Zen 2 ci sono soltanto supermercati della droga, dei ricambi auto e moto rubati, delle attività illecite più apprezzate da Cosa Nostra. E l’aspetto esteriore, nel complesso, è di un enorme carcere con i suoi cortili di cemento in cui far divenire l’ora d’aria una ventiquattrore di traffici illeciti. Progettato talmente bene che ai residenti, che in buona parte conoscono già il carcere, ricorda appunto una galera – e non fa quindi paura quella vera dell’Ucciardone o dei Pagliarelli – ed alle Forze dell’ordine risulta impossibile operare con discrezione o effettuare una retata senza l’ausilio di sette reggimenti e dell’aviazione. In questa terra dimenticata, dove la scuola in questione subisce attacchi paragonabili a quelli che subiva don Pino Puglisi prima dell’esecuzione, colpevole di allontanamento dei ragazzi dai dogmi delle famiglie, la distruzione del busto di Giovanni Falcone torna utile anche per coprire la stessa natura dell’azione vandalica e l’analisi degli artefici. Eppure, malgrado questo uso strumentale del suo nome, le discussioni che poi si fanno per la concreta lotta alla mafia sono sempre le stesse: qualche cavillo per cui l’organizzazione criminale ringrazierà finisce nelle modifiche al Codice Penale, Codice di Procedura Penale e nella riorganizzazione dell’Ordinamento Giudiziario; Totò Riina continua a non parlare se non per chiedere di lasciare il regime carcerario duro destinato ai mafiosi; Bruno Contrada vede annullare la sua condanna perché all’epoca dei fatti il “concorso esterno” non era una reato così chiaro da permettere che questi se ne rendesse conto; Marcello Dell’Utri rilascia interviste lamentando anch’esso incompatibilità con il regime carcerario e permettendosi la definizione di “prigioniero politico”; il “reato di tortura” punta a convincere le Forze dell’ordine a guardare altrove in caso di crimini in flagranza, se non dovessero bastare i tagli economici e del personale con cui devono già fare i conti; e tanto altro ancora nelle stanze dei condottieri antimafia che non riescono però a sottrarre dei quartieri in cui si alleva la futura truppa mafiosa, oggi orgogliosa della distruzione di una statua di “uno” che era contro la mafia. Perché l’unica vera realtà è che in molti quartieri della terra di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino ci sono giovani e meno giovani che usano dire quella frase resa famosa su scala nazionale nel 1989 con il film Marco Risi “Mery per sempre”: Io la mano agli sbirri non gliela stringo! E per questo fenomeno culturale qualcuno ha una ricetta? No? Certo, tanto un Giovanni Falcone va bene su tutto.

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