Risvegli, come saremo dopo la pandemia?

La pandemia da coronavirus e le misure restrittive messe in atto dal Governo per contenerla e per consentire una gestione sanitaria adeguata, dovrebbero indurci a una serie di riflessioni e ripensamenti su noi stessi, sul nostro modo di vivere e il nostro ruolo nella società, sulla nostra percezione di noi non soltanto come individui, ma come membri di una comunità

di Franca Regina Parizzi

La pandemia da coronavirus e le misure restrittive messe in atto dal Governo per contenerla e per consentire una gestione sanitaria adeguata, dovrebbero indurci a una serie di riflessioni e ripensamenti su noi stessi, sul nostro modo di vivere e il nostro ruolo nella società, sulla nostra percezione di noi non soltanto come individui, ma come membri di una comunità.

Lo slogan “Tutto tornerà come prima”, iniezione di fiducia e di speranza da più parti somministrata, è purtroppo lo scenario più probabile che vedremo a fine pandemia, mentre sarebbe decisamente più importante e più costruttiva una revisione critica della nostra vita, dei nostri valori e delle nostre priorità. La fretta, che ha caratterizzato le giornate di gran parte delle persone, si è trasformata in lentezza, la socialità in solitudine e si è dovuta inevitabilmente fare una distinzione tra essenziale, necessario e superfluo. Si è creata un’opportunità unica, irripetibile, di riflessione.

Stiamo vivendo una situazione che possiamo definire paradossale: le attività sociali ed economiche, che rappresentano i pilastri sui quali abbiamo costruito e condotto la nostra vita, sono le stesse che hanno permesso e permettono al virus di circolare, di diffondersi. E le limitazioni alle attività produttive e sociali hanno generato – e generano – altri problemi di salute. Un circolo vizioso difficile da spezzare. Perché trovare un equilibrio tra rischio di contagio e rischio di povertà non è impresa facile.

In questa direzione vanno i provvedimenti assunti dal Governo, con le inevitabili incertezze e incongruenze, anche errori, che accompagnano ogni decisione in una situazione certamente molto difficile da gestire. In questa emergenza, che mai avremmo potuto immaginare, ma che è purtroppo quanto mai reale, le reazioni dei singoli individui sono state, e sono, le più disparate. C’è chi nega l’esistenza del coronavirus, chi minimizza la malattia, chi cerca il colpevole o i colpevoli a ogni costo. Tutte reazioni, queste, che hanno un solo fine, anche se per lo più inconsapevole: l’autoassoluzione e la deresponsabilizzazione, mascherate da ideologia di bassa lega, alimentate da ciarlatani o semplicemente basate su messaggi mediatici scorretti o travisati a proprio uso e consumo. Sono queste le persone più pericolose, esempi di un qualunquismo e un individualismo opportunista, verso le quali cade nel vuoto ogni  richiamo alla responsabilità collettiva. C’è chi invece (la maggioranza), consapevole del rischio del contagio, rispetta le norme precauzionali e le restrizioni imposte dal Governo con l’obiettivo di uscire quanto prima dal tunnel (magari con il vaccino) e tornare alla “vita di prima”, dimenticando, cancellando questa sofferta esperienza.

Però tra poco è Natale, e poi c’è Capodanno … Non si può rinunciare al pranzo, ai regali, agli amici, al cenone. Non si può rinunciare alla consueta vacanza sulla neve. Non sono solo i commercianti e gli operatori turistici a soffrire delle limitazioni che probabilmente si renderanno necessarie. La loro preoccupazione è seria, concreta, degna di attenzione e di rispetto, oltre che di supporto economico. Ma sono moltissime le persone che, pur non soffrendo particolarmente la situazione sul piano economico, non sono disposte ad accettare un Natale senza regali, un Capodanno nella ristretta cerchia familiare e non sui campi da sci, e via dicendo … Il loro malessere, le loro preoccupazioni sono dovuti all’incapacità di rinunciare a un modo di vivere consumistico oramai connaturato, che rappresenta la loro essenza più intima e indiscussa. Non riescono, non possono pensarsi al di fuori di questo modo di vivere e si lamentano per le limitazioni che potrebbero alterarlo, sbandierando una inaccettabile privazione della libertà personale.

E qui si apre il grande tema della libertà personale: libertà di movimento, libertà di riunione, ecc. ecc. Un tema ampio e complesso, che meriterebbe un serio approfondimento. Fermo restando che la limitazione della libertà individuale dovuta alla pandemia è necessaria e temporanea, essa è anche del tutto legittima, giustificata da un obiettivo democratico: controllare la diffusione del contagio e garantire a tutti, senza distinzioni, le cure necessarie. Dunque: salvaguardia della salute pubblica ed equità nell’accesso alle cure. Un diritto, questo dell’equità nell’accesso alle cure, purtroppo calpestato dalle politiche di privatizzazione della sanità in molte regioni. Il coronavirus ha colpito e colpisce tutti senza distinzione, e tutti dovrebbero avere garantita uguale adeguata assistenza sanitaria. Tuttavia nella realtà non va proprio così. Molti malati di Covid-19 non riescono ad accedere a un’assistenza domiciliare anche solo telefonica, o devono attendere un tempo inaccettabilmente lungo per un tampone, o aspettare interminabili ore su un’ambulanza prima di essere ricoverati in ospedale. Mentre invece altri privilegiati possono permettersi  di ricevere una solerte e completa assistenza sanitaria pagando le prestazioni (vedi tariffario per assistenza domiciliare per Covid-19 dell’Ospedale San Raffaele di Milano (Fig. 1).

Fig. 1 Tariffario per assistenza domiciliare per Covid-19 dell’Ospedale San Raffaele di Milano pubblicato da Huffington Post 16 Novembre 2020

Anche la salute è diventata un oggetto del mercato. Ci va bene così? E’ questo che vogliamo?

Come già sottolineato, la pandemia nella quale siamo immersi, come pesci fuori dall’acqua che boccheggiano e si agitano senza capire dove andare, ci offre un’opportunità unica e irripetibile: quella di interrogarci, di ripensarci, in un certo senso chiarirci con noi stessi. Chi siamo? Chi vogliamo essere? La nostra ordinaria quotidianità, quella che tanto ci manca e cui aspiriamo di tornare presto, è realmente espressione della nostra libertà? Viviamo le limitazioni che ci sono imposte per il controllo dell’epidemia come un pesante condizionamento (c’è chi lo ha definito persino “dittatura sanitaria”) e non ci rendiamo conto di quanto la nostra vita (alias la nostra libertà) sia in realtà condizionata da una folta schiera di “persuasori occulti” (per citare Vance Packard) – oggi li chiamano influencer – , che ci inculcano subdolamente obiettivi consumistici senza che ce ne rendiamo conto. Forse è arrivato il momento di stravolgere le nostre priorità.

“è fondamentale difendersi dagli attacchi del mercato. E per far ciò serve la sobrietà nel vivere. Questo è l’unico reale esercizio della nostra libertà” (José Pepe Mujica, in foto).

Governare il mercato e non lasciarsi condizionare dal mercato, prendere umilmente coscienza del limite e dell’essenziale. Il denaro deve essere un mezzo per vivere, non il fine del vivere. Viviamo in una società che ha creato falsi bisogni e falsi obiettivi, una società centrata sull’individualismo egoistico ed egocentrico, una società che sacrifica al mercato la salute dei singoli e della collettività e la salute dell’ambiente, determinante fondamentale della salute di tutti.

Papa Francesco, in una piazza San Pietro deserta per il lockdown, il 27 Marzo 2020, nella preghiera ha detto: “Credevamo di essere sani in una terra malata”.

Poche parole che dicono tutto: che siamo noi i responsabili di questa “terra malata”, che noi dobbiamo cambiare il nostro modo di stare su questa terra, nel rispetto non solo dell’ambiente, ma anche e soprattutto della convivenza sociale. Emergenze ambientali e sociali ed emergenze infettive sono strettamente embricate.

Se ci prendiamo il tempo per riflettere, ora che la pandemia ha dilatato il tempo a nostra disposizione, ora che la fretta non condiziona più le nostre giornate, possiamo – dobbiamo – renderci conto che in questo tipo di vita e di società qualcosa non funziona. Già la crisi economica e sociale del 2008, di cui portiamo ancora il peso sul nostro debito pubblico, avrebbe dovuto allargare i nostri orizzonti mentali, imporre un cambio di rotta, ma le politiche neoliberiste hanno perseverato e si sono anzi rafforzate, portando un graduale, ma inesorabile, smantellamento dei sistemi di welfare con conseguente aumento della povertà, delle disuguaglianze e delle fragilità, che la pandemia da coronavirus ha drammaticamente amplificato. 

La salute è un bene comune, la salute di ognuno di noi è strettamente connessa alla salute degli altri. La salute è un diritto e, come tutti i diritti, non può e non deve essere solo individuale. Diritti individuali e diritti sociali sono strettamente legati: è questo il “patto sociale”, la base per la convivenza e il rispetto, e il fondamento di ogni comunità. Forse è arrivato il momento di abbandonare la concezione egocentrica della vita, di assumere una visione del bene comune che vada oltre il proprio personale interesse, di passare dall’io al noi, di ridefinire e rinvigorire il patto sociale, di entrare in una prospettiva allargata, solidale, di nuova socialità, di cittadinanza collettiva e attiva. Forse è arrivato il momento di passare dalla globalizzazione del mercato alla globalizzazione della solidarietà e della giustizia sociale. Forse è arrivato il momento per ciascuno di noi di impegnarci di più per cambiare questa società malata, di andare finalmente controcorrente. Il coronavirus ci insegna che è necessario l’impegno di ciascuno e di tutti per un vero cambiamento. Sta a noi, come singoli e come collettività, accogliere la lezione.

Informazioni su Franca Regina Parizzi 27 Articoli
Nata a Milano il 15.12.1947, ha conseguito la laurea in Medicina e Chirurgia nel 1972 presso l’Università degli Studi di Milano con voti 110/110 e lode. Nel 1974 è stata assunta presso l’Ospedale San Gerardo di Monza, inizialmente come Assistente nel Reparto di Malattie Infettive e successivamente, dal 1980, nel Reparto di Pediatria, divenuto nel 1983 sede della Clinica Pediatrica dell’Università degli Studi di Milano Bicocca, ove ha ricoperto successivamente (dal 1988) il ruolo di Aiuto Corresponsabile Ospedaliero, e, dal 2000, di Dirigente Medico con incarico di Alta Specializzazione. Ha conseguito la Specializzazione in Malattie Infettive e successivamente in Chemioterapia, entrambe presso l’Università degli Studi di Milano. Nel 1977 e 1978 è stata responsabile del Reparto di Pediatria presso l’Hôpital Général de Kamsar (République de Guinée – Afrique de l’Ouest) nell’ambito della Cooperazione Tecnica con i Paesi in via di sviluppo del Ministero degli Affari Esteri italiano. Autrice di numerose pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali e internazionali e relatrice in diversi convegni (nazionali e internazionali). Dal 2010 si è trasferita da Monza a Lampedusa, isola alla quale è profondamente legata, dove esercita tuttora la sua attività come pediatra.

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*