Sempre dalla parte di chi soccorre in mare

Nessuno ricorda che, dopo un mese e oltre di blocco in alto mare sulla nave Maersk Etienne, alcuni naufraghi si erano gettati in acqua e altri minacciavano di farlo perché nessuno Stato e nessuna autorità marittima avevano indicato un porto sicuro di sbarco come e' imposto dalle Convenzioni internazionali

di Fulvio Vassallo Paleologo

I fatti risalgono al mese di settembre dello scorso anno, ma la Procura di Ragusa ha lanciato solo negli scorsi giorni una imponente operazione di polizia giudiziaria, con perquisizioni in tutta Italia e con il sequestro del rimorchiatore Mare Ionio della ONG Mediterranea Saving Humans, contestando un accordo economico delle compagnie armatrici del rimorchiatore, che aveva trasbordato i naufraghi, per sbarcarli poi a Pozzallo, e della nave portacontainer Maersk Etienne, tenuta in alto mare a sud di Malta, senza l’assegnazione di un porto di sbarco sicuro, per oltre 38 giorni, con 27 persone a bordo. Vengono contestati  il reato di agevolazione aggravata dell’ingresso di “clandestini” e non meglio precisate violazioni del Codice della navigazione. Il tempo darà ragione a chi ha salvato vite umane, persone respinte da tutti gli Stati per oltre un mese e poi fatte sbarcare in Italia su ordine del Viminale per una incombente emergenza sanitaria.

Nessuno ricorda che, dopo un mese e oltre di blocco in alto mare sulla nave Maersk Etienne, alcuni naufraghi si erano gettati in acqua e altri minacciavano di farlo perché nessuno Stato e nessuna autorità marittima avevano indicato un porto sicuro di sbarco come e’ imposto dalle Convenzioni internazionali. Forse le autorità statali volevano fare pagare alla compagnia di navigazione la decisione di puntare su Malta, che però sembrava avere assunto il coordinamento iniziale delle attività SAR (ricerca e salvataggio), e poi rifiutava la indicazione di un porto di sbarco sicuro, che sarebbe stata imposta dal Diritto internazionale del mare. Forse si voleva punire la scelta del comandante della Maersk Etienne di non sbarcare i naufraghi in un porto africano, o una disobbedienza all’ordine implicito di riportare indietro i naufraghi. Non mancano i casi di navi commerciali che sono state costrette ad eseguire un respingimento collettivo, e nel caso ASSO 28 se ne sta pure occupando un tribunale italiano. Di certo quella vicenda doveva servire come ammonimento per tutte le navi commerciali che incrociavano  barconi carichi di migranti sulle rotte del Mediterraneo centrale. E in effetti sono numerose le testimonianze di naufraghi che da allora hanno visto sfilare, proseguendo sulla loro rotta, grandi navi che non si sono fermate per prestare soccorsi.

Quello che è certo è il dato cronologico di questa spettacolare operazione di polizia giudiziaria che adesso conferisce a Salvini un potere di controllo sul Viminale, e sulle decisioni relative allo sbarco dei naufraghi, che altrimenti non avrebbe avuto. Ed era stato l’ex ministro dell’interno Salvini, prima dei divieti di ingresso “ad navem” e del Decreto sicurezza bis del 2019, a pretendere già nel 2018 che la Guardia costiera non raccogliesse le chiamate di soccorso provenienti dai barconi carichi di migranti. Una violazione eclatante degli obblighi di soccorso, stabiliti dal Diritto internazionale, come pratica di governo, una politica di abbandono in mare, o ai libici,rivendicata anche durante i procedimenti Gregoretti ed Open Arms in corso a Catania ed a Palermo.

Ancora in queste ore una nave di una Organizzazione non governativa, la Sea Watch, vaga nel Canale di Sicilia con oltre 300 naufraghi a bordo, senza la indicazione di un porto di sbarco sicuro. Il nuovo sottosegretario leghista al ministero dell’interno pretende che si ritorni alla politica dei porti chiusi introdotta dal decreto sicurezza bis di Salvini del 2019, e i partiti di destra sembrano riuscire a concorrere, sia pure da diverse posizioni,dal governo e dall’opposizione, a condizionare le scelte del governo in materia di salvataggi in mare. Del resto lo scorso anno, quando si era tentata la riforma dei decreti sicurezza,con il decreto legge n.130 del 2020, non si era riusciti ad intaccare nella sostanza il sistema di divieti imposto alle navi private che si trovavano da sole ad affrontare eventi SAR in acque internazionali, dopo che gli Stati e l’Agenzia dell’Unione Europea per il controllo delle frontiere esterne (FRONTEX) avevano ritirato la maggior parte degli assetti navali prima presenti nel mediterraneo centrale.

Toccherà ad altri accertare elementi soggettivi,fatti e nessi causali dell’azione di soccorso operata dalla nave Mare Jonio nel settembre dello scorso anno, ma i risultati politici della nuova inchiesta aperta dalla Procura di Ragusa, che già aveva fatto ricorso contro il non luogo a procedere stabilito dal Tribunale di Ragusa sul caso Open Arms (marzo 2018), sono già sotto gli occhi di tutti. Nella maggior parte dei canali di comunicazione si è rilanciata una complessiva criminalizzazione degli interventi di soccorso nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale. Ma per valutare quanto effettivamente successo durante i 40 giorni di blocco dei naufraghi soccorsi lo scorso anno dalla Maersk Etienne occorre valutare i fatti e le condizioni estreme nelle quali erano stati ridotte 27 persone abbandonate su una nave portacontainer che veniva “rifiutata” tanto a lungo dai porti maltesi ed italiani. Non erano bastati a garantire lo sbarco in un porto sicuro neppure gli appelli dell’Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR) e le denunce di Amnesty International che documentavano come Malta negasse sistematicamente l’adempimento dei doveri di soccorso e sbarco stabiliti dalle Convenzioni internazionali.

Alla fine la Mare Jonio aveva trasbordato e condotto i naufraghi nel porto di Pozzallo con l’avallo del governo italiano, come riferito anche dalla stampa maltese, e sotto il coordinamento della Centrale di comando della Guardia costiera italiana (IMRCC). Adesso quella azione di soccorso viene considerata come agevolazione dell’immigrazione “clandestina” (art.12 del Testo Unico n.286/98) perché si sarebbe scoperto un trasferimento di denaro, forse una donazione, tra le due società armatrici della Mare Ionio e della Maersk Etienne. Ma questo comunque non incide sulle regole di diritto internazionale e di diritto interno che disciplinano l’obbligo degli Stati di garantire la indicazione di un porto di sbarco sicuro.

La vicenda dei soccorsi in mare rischia di diventare così, ancora una volta, materia di propaganda politica. Con un inasprimento del discorso d’odio, innescato dal dramma che tutti vivono sulla propria pelle per la pandemia da COVID 19, si confrontano le limitazioni alla libertà di circolazione imposte a coloro che risiedono in Italia, con la  presunta “libertà” di ingresso delle persone che vengono soccorse in mare dopo essere state fatte partire dalle organizzazioni criminali, l’unica via di fuga possibile dopo la chiusura di tutti i canali legali di ingresso in Europa. Ma il diritto alla vita in mare, e dunque il diritto al soccorso, è sancito dalle Convenzioni internazionali anche a scapito del diritto degli Stati sovrani di “difendere” i propri confini. Si nasconde che non si tratta di partenze volontarie, neppure nel caso degli arrivi autonomi a Lampedusa, ma di persone che fuggono da abusi sistematici in Libia, ancora dilaniata dallo scontro tra le fazioni tribali, e da una povertà che in Tunisia è stata aggravata dalla pandemia e che cancella il futuro e la stessa possibilità di sopravvivenza per i più giovani.

La crisi migratoria che ci attende si potrà superare soltanto se al canone della chiusura dei porti si sostituirà il principio di solidarietà, da riaffermare con i paesi della sponda sud del Mediterraneo e non solo nei rapporti con l’Unione Europea, in vista di una successiva redistribuzione dei naufraghi che sono sbarcati in Italia, e non solo dei richiedenti asilo, come potrebbe avvenire se si riuscisse a modificare il regolamento Dublino III, riforma che appare sempre più lontana, in un momento in cui gli Stati stanno chiudendo le loro frontiere, mettendo a rischio persino la libertà di circolazione sancita dal sistema Schengen. Appare ineludibile affrontare le questioni dell’evacuazione di tutte le persone trattenute in Libia nei centri di detenzione e di riapertura di canali legali di ingresso anche per i cd. migranti economici, magari a titolo stagionale o con forme diverse di sponsorizzazione.

Vanno sospesi gli accordi con il governo di Tripoli e si deve revocare il riconoscimento di una zona SAR libica,ancora ieri, secondo quanto denuncia l’UNHCR, oltre 100 persone sono state intercettate dalle motovedette libiche e riportate a terra, nelle mani delle milizie dalle quali erano riusciti a fuggire.

Il processo penale non può essere considerato come uno strumento di politica migratoria e le regole di soccorso stabilite dal diritto internazionale vanno rispettate dagli Stati che devono coordinare tempestivamente tutte le operazioni SAR di cui vengono a conoscenza, anche al di fuori delle aree di loro competenza, in modo da riportare le loro unità di ricerca e salvataggio nelle acque internazionali e rispettare gli obblighi derivanti dalle Convenzioni di diritto del mare ( UNCLOS, SAR e SOLAS), oltre che le norme interne, come, nel caso dell’Italia, il recente Regolamento sui soccorsi in mare (SAR) adottato dal precedente ministro delle infrastrutture (De Micheli) il 4 febbraio scorso. Vedremo adesso se, con il nuovo governo Draghi, si tornerà alla violazione sistematica degli obblighi di soccorso stabiliti dalle Convenzioni internazionali ed alla politica giudiziaria di contrasto dei soccorsi in mare.

Informazioni su Fulvio Vassallo Paleologo 5 Articoli
Avvocato, già docente di Diritto di asilo presso l'Università di Palermo e componente della campagna LasciateCientrare. Autore di diverse pubblicazioni in materia di diritto delle migrazioni, svolge attività di consulenza e di promozione dei diritti umani

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