Migranti e Covid-19, un piano per gli sbarchi contro il virus dell’odio

Ieri la nave Alan Kurdi della ONG tedesca Sea Eye ha soccorso 150 persone dopo essersi trovata davanti una motovedetta libica che ha aperto il fuoco. A Tripoli le forze del generale Haftar bombardano persino gli ospedali. Gli Stati non rispettano gli obblighi di ricerca e salvataggio in mare che si completano soltanto con la indicazione di un porto di sbarco sicuro

Migranti in mare soccorsi il 6 aprile 2020 dalla nave Alan Kurdi (Credits: Sea Eye)

di Fulvio Vassallo Paleologo

In Libia la guerra civile infuria e le persone cercano ancora di affidarsi ai trafficanti per cercare di fuggire, in assenza di qualsiasi canale legale di evacuazione o di reinsediamento, anche senza la presenza delle Ong nel Mediterraneo centraleA Tripoli le forze del generale Haftar bombardano persino gli ospedali. Gli ultimi mesi, nei quali appena le condizioni meteo lo hanno consentito, sono continuate le partenze dalla Libia pur senza la presenza delle navi umanitarie, hanno smentito definitivamente la tesi del cosiddetto pull factor (fattore di attrazione) che sarebbe esercitato dalle azioni di salvataggio. Il soccorso dei naufraghi è un obbligo imposto dal diritto internazionale, recepito dalla Costituzione ( art.117) e non può qualificarsi come agevolazione dell’immigrazione irregolare.

In assenza di assetti navali destinati alle attività SAR ( ricerca e soccorso) sulla rotta libica, diverse imbarcazioni di legno partite dalla Tunisia e dalla Libia hanno raggiunto le coste di Lampedusa, entrando in porto dopo essere state intercettate dalla Guardia di finanza soltanto dopo il loro ingresso nelle acque territoriali italiane. Il loro arrivo non appare certo imputabile alla presenza di navi delle Organizzazioni non governative (ONG) che sono state costrette quasi tutte al ritiro, per effetto delle politiche di contrasto praticate dagli stati che, non riuscendo ad ottenere condanne dalla magistratura, hanno fatto ricorso ad una serie infinita di contromisure amministrative che ne hanno paralizzato di fatto l’attività.

Ieri, 6 aprile 2020, la nave umanitaria Alan Kurdi della ONG tedesca Sea Eye ha soccorso 150 persone, dopo essersi trovata davanti una motovedetta libica che già nel primo evento SAR (ricerca e salvataggio), non ha esitato ad aprire il fuoco per impedire il completamento dell’operazione di soccorso. Sembrerebbe che una nave di servizio alle piattaforme petrolifere ( ENI/NOC) del campo di Bouri Field, a 70 miglia da Sabratha, si sia rifiutata di cooperare nell’evento di soccorso. Adesso la Alan Kurdi rimane in attesa della indicazione di un porto sicuro di sbarco da parte del governo italiano. Una risposta che non può provenire dalle autorità maltesi, che da tempo negano ogni intervento nel caso di operazioni SAR che si svolgono al di fuori delle loro acque territoriali, o che non siano direttamente operate da assetti navali maltesi. Inoltre a La Valletta il centro di accoglienza/detenzione è arrivato a contenere oltre mille richiedenti asilo ed attualmente costituisce una zona rossa, isolata dalla polizia. Un solo centro a Malta che accoglie più migranti di quanti non ne siano attualmente ospitati nei centri di prima accoglienza siciliani. 

Quando uno Stato non può garantire l’intervento SAR che gli compete, la competenza rimane sulle autorità del primo paese che ha avuto notizia dell’evento di soccorso e che può garantire un porto sicuro di sbarco (Place of safety-POS). Questo lo si legge nelle Convenzioni internazionali e negli atti giudiziari. Per queste ragioni il governo italiano deve indicare al più presto un porto di sbarco sicuro per i naufraghi soccorsi dalla Alan Kurdi.

Come in altri campi è venuta meno qualsiasi forma di solidarietà europea. L’operazione IRINI recentemente varata nell’ambito delle attività di EUNAVFOR MED rivela una natura meramente repressiva ed appare inconsistente dal punto di vista del soccorso in mare, restando ubicata volutamente molto ad oriente della Tripolitania, proprio allo scopo di non incrociare le rotte battute dai migranti in fuga dalla Libia.

Frontex continua a scambiare operazioni di soccorso in mare per attività di favoreggiamento dall’immigrazione “clandestina”. Gli assetti aerei dell’operazione Frontex, rimasti operativi dopo il ritiro delle navi militari europee, continuano a svolgere nel Mediterraneo centrale la loro attività di “law enforcement”, ma come avvenuto in passato, alternano lunghi periodi di inattività, quando mancano le ONG, a missioni operative destinate al monitoraggio delle attività di soccorso degli operatori umanitari, piuttosto che al tracciamento degli scafisti o alla realizzazione dei soccorsi di chi rischia di perdere la vita in mare, trovandosi su imbarcazioni in evidente situazione di distress. Gli agenti Frontex non salvano vite ma preparano denunce per fare fuori le ONG che si ostinano ad operare soccorsi umanitari. Piuttosto che andare a tracciare le imbarcazioni che hanno bisogno di soccorso, rimangono a sorvolare le navi umanitarie che hanno già salvato decine di vite umane, per preparare le basi di future imputazioni. Un copione che abbiamo già visto in passato. Sarebbe finalmente tempo che le navi militari della Guardia costiera e della Marina tornassero a presidiare il Mediterraneo centrale anche in funzione di soccorso, come era avvenuto sino alla fine del 2017.

Nel Mediterraneo centrale, gli Stati non rispettano gli obblighi di ricerca e salvataggio in mare che si completano soltanto con la indicazione di un porto di sbarco sicuro. Ancora in queste ore decine di persone, a bordo di un’altra imbarcazione di legno, rimangono in alto mare a rischio di naufragare in una zona di mare che sarebbe di competenza delle autorità maltesi, ma nella quale si sono verificati casi di respingimento collettivo con interventi coordinati tra le autorità de La Valletta e la sedicente guardia costiera “libica” che risponde al governo Serraj a Tripoli.

Intanto in Italia la macchina dell’odio è pronta a ripartire, mentre il governo non ha un piano sbarchi da mettere in opera ai tempi del COVID-19. Qualcuno sostiene che alla fine dell’emergenza sanitaria prevarrà la solidarietà, ma i segnali che si percepiscono non appena viene in discussione qualsiasi materia relativa ai migranti lasciano presagire un aumento esponenziale delle posizioni di chiusura e delle spinte nazionaliste e sovraniste. Sono già partiti attacchi velenosi contro gli insediamenti informali nei quali centinaia di persone migranti sono esposte al rischio di contagio per le condizioni di degrado nelle quali sono abbandonate.

Dalla paura si diffonde di nuovo il seme dell’odio. Appena si rende noto uno sbarco, gran parte dell’opinione pubblica italiana rilancia gli allarmi, se prima si paventava una invasione, ora di fronte ad un numero esiguo di persone che chiedono protezione, si paventa il rischio di un contagio. Come se non fossero i migranti a correre i maggiori rischi di infezione per le condizioni nelle quali vengono confinati nei centri di accoglienza, mentre nei paesi subsahariani e in Libia la diffusione del virus COVID.19 appare ancora limitata. Non si vede peraltro quale ostacolo possa frapporsi alla indicazione di un porto di sbarco quando le procedure di quarantena sono già previste da tempo per tutti i migranti soccorsi in mare, soprattutto perchè il loro numero davvero esiguo permette di accertarne con la massima precisione lo stato di salute. A differenza di quanto si verifica invece con gli stranieri che comunque arrivano ancora nei nostri aeroporti e con le centinaia di migliaia di migranti costretti alla irregolarità da leggi ingiuste che precludono qualsiasi accesso ad uno status legale di soggiorno.

Occorre per queste ragioni che il governo si sottragga al ricatto delle destre e garantisca, oltre alla necessaria regolarizzazioneun piano sbarchi nazionale per la distribuzione delle persone soccorse in mare, che permetta una sollecita conclusione delle operazioni di ricerca e salvataggio, come imposto dalle Convenzioni internazionali. Siamo alla fine dell’inverno, e le migliorate condizioni del mare permetteranno un numero maggiore di partenze, anche se le condizioni di conflitto civile in Libia, e la (relativa) chiusura dei confini tra gli stati africani, escludono esodi di massa come quelli che si sono verificati dal 2014 al 2018.

Occorre procedere dunque ad una distribuzione dei naufraghi soccorsi nel Mediterraneo centrale in diversi centri di accoglienza, ubicati in varie regioni italiane, che garantiscano, oltre all’accesso alle procedure di protezione, il loro diritto alla salute, il diritto alla salute degli operatori, la salute pubblica nel complesso.

Allo stato attuale di disgregazione dell’Unione Europea, con la chiusura di tutte le frontiere interne, non si può prevedere che il piano di ricollocazione previsto dal Protocollo provvisorio di Malta, lo scorso anno, possa funzionare ancora, e fungere magari da giustificazione per lo sbarco dei naufraghi in Italia. Sbarco che corrisponde all’obbligo di indicare un porto di sbarco sicuro, come completamento delle operazioni SAR ( ricerca e salvataggio) e che non rientra nella sfera discrezionale delle autorità politiche. Soprattutto in tempi come questi, è inconcepibile, da un punto di vista morale, oltre che giuridico, che persone scampate ad un conflitto crudele come quello che si sta proseguendo in Libia, ed a condizioni di detenzione disumane, possano essere abbandonate a marcire in alto mare senza alcuna prospettiva di sbarco, o peggio essere rinviate verso un paese nel quale i loro diritti fondamentali sarebbero di nuovo gravemente violati.

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