Prescrizione: le parole corrotte

L'editoriale di Domenico Gallo

di Domenico Gallo

E’ diventato sempre più incandescente il dibattito sulla prescrizione al punto da mettere in discussione la tenuta della maggioranza di governo, sferzata dalla contestazione di Italia viva che, assieme ai partiti di centrodestra, vorrebbe annullare la riforma Bonafede che ha introdotto il blocco del decorso della prescrizione dopo la pronuncia della sentenza di primo grado.

Non v’è dubbio che la soluzione adottata dal legislatore pentastellato nell’ambito di un provvedimento enfaticamente denominato “spazza corrotti” sia una norma bandiera del populismo applicato al diritto penale. Vale a dire dell’uso ideologico degli strumenti del diritto penale per costruirsi un facile consenso popolare. Tuttavia la drammatizzazione che ne viene fatta da soggetti politici, pur sempre interessati a mantenere in vita degli spazi di impunità, non è il modo migliore per venire a capo dei dilemmi che pone il nodo della prescrizione in relazione al rapporto fra i poteri dello Stato ed i diritti delle persone.

A questo proposito non ci aiuta la corruzione del linguaggio che viene portata avanti nel dibattito corrente. Parole come “garantismo” o “giustizialismo” non hanno alcun senso in quanto troppo spesso sono state evocate per mascherare una rivendicazione di impunità del ceto politico-affaristico insidiato dalla crescente capacita di controllo esercitata dall’autorità giudiziaria, ma servono soltanto ad attivare delle opposte tifoserie.

Bisogna uscire da ogni banalizzazione per andare alla sostanza del problema: che rapporto c’è fra il potere/dovere punitivo dello Stato, il decorso del tempo ed i diritti individuali?

Tranne che per i reati più gravi (l’omicidio, la strage, i crimini di guerra), il decorso del tempo fa venire meno l’interesse dell’ordinamento a procedere alla punizione dei responsabili dei fatti-reato. E’ un fatto obiettivo, non dipende dall’apprezzamento dei diritti dell’individuo. Infatti il legislatore fascista, che certamente non considerava i diritti individuali come limiti al potere dello Stato, aveva previsto come causa generale di estinzione del reato (cioè di non punibilità) il decorso di un certo spazio temporale dal fatto, variabile a seconda della gravità dell’illecito. La norma che regolava la prescrizione è rimasta in vigore dal 1930 fino al 2005, quando il governo Berlusconi ha introdotto una disciplina double face che comportava una diminuzione dei termini di prescrizione per la generalità dei reati commessi dai colletti bianchi (le persone perbene) ed un allungamento per i reati commessi dai recidivi (le persone permale).

Combinando gli effetti della diminuzione dei termini di prescrizione con quelli derivanti dalla complessità del processo penale, governato da un alto livello di garanzie, il risultato ha comportato la creazione di uno spazio di impunità di fatto soprattutto per i reati dei colletti bianchi (che in alcuni casi possono essere estremamente dannosi per la collettività) ed ha incoraggiato l’uso improprio delle garanzie processuali per allungare i tempi del processo.

Con la riforma Orlando sono stati approntati dei rimedi perché per i reati di corruzione i termini sono stati allungati. Con altre riforme precedenti erano stati raddoppiati i termini ordinari di prescrizione per molti reati di allarme sociale come quelli di violenza sessuale. La riforma Orlando non è ancora andata a regime, applicandosi ai fatti commessi a partire dal 3 agosto 2017, per cui non è stato possibile sperimentarne l’effetto. Ciò rende del tutto immotivato l’intervento di Bonafede che ha sterilizzato il decorso della prescrizione.

La pretesa di ridurre i tempi del processo penale per evitare il paradosso di avere delle persone imputate a vita, è un’emerita sciocchezza. Sia perché non si possono ridurre i tempi senza ridurre le garanzie, sia perché i tempi del processo dipendono da una serie di fattori che non sempre possono essere governati. In ogni caso non si può sfuggire dal dilemma di quali siano nei confronti dell’individuo i limiti del potere punitivo dello Stato, se questo potere debba essere assoluto, come pretendono i fautori del populismo penale, ovvero debba riconoscere un limite di ragionevolezza nel decorso del tempo.

La severa critica della riforma Bonafede non giustifica, però, la fibrillazione che si è verificata in sede politica perché gli effetti reali del prolungamento della punibilità nel tempo si comincerebbero a sentire non prima del giugno 2027, quando maturerebbe la prescrizione (secondo il vecchio regime) per i delitti meno gravi commessi a partire dal 1° gennaio 2020. Questo ci porta a diffidare della buona fede di tanti difensori interessati dello Stato di diritto.

(Editoriale di Domenico Gallo pubblicato in condivisione con Il Corriere dell’Irpinia)

Informazioni su Domenico Gallo 78 Articoli
Nato ad Avellino l'1/1/1952, nel giugno del 1974 ha conseguito la laurea in Giurisprudenza all'Università di Napoli. Entrato in magistratura nel 1977, ha prestato servizio presso la Pretura di Milano, il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, la Pretura di Pescia e quella di Pistoia. Eletto Senatore nel 1994, ha svolto le funzioni di Segretario della Commissione Difesa nell'arco della XII legislatura, interessandosi anche di affari esteri, in particolare, del conflitto nella ex Jugoslavia. Al termine della legislatura, nel 1996 è rientrato in magistratura, assumendo le funzioni di magistrato civile presso il Tribunale di Roma. Dal 2007 è in servizio presso la Corte di Cassazione, attualmente ricopre le funzioni di Presidente di Sezione. E’ stato attivo nel Comitato per il No alla riforma costituzionale Boschi/Renzi. Collabora con quotidiani e riviste ed è autore o coautore di alcuni libri, fra i quali Millenovecentonovantacinque – Cronache da Palazzo Madama ed oltre (Edizioni Associate, 1999), Salviamo la Costituzione (Chimienti, 2006), La dittatura della maggioranza (Chimienti, 2008), Da Sudditi a cittadini – il percorso della democrazia (Edizioni Gruppo Abele, 2013), 26 Madonne nere (Edizioni Delta Tre, 2019)

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