Una giornata di ordinario abbandono in mare. Quale guardia costiera “libica”?

Secondo la stessa Marina libica, la ONG Sea Eye diffonderebbe le foto dell’aggressione subita ieri “per bloccare la cooperazione positiva” tra Italia e Libia. Il 6 novembre 2017 la guardia costiera libica attaccava una nave della ONG tedesca Sea Watch e diversi naufraghi perivano in mare e malgrado l'episodio si è progressivamente intensificata la collaborazione italiana con le milizie "guardacoste" della Libia

Barchino con 45 naufraghi soccorso da Open Arms il 27 ottobre 2019 a sud di Lampedusa

di Fulvio Vassallo Paleologo

In una sola giornata è apparso visibile a tutti quali siano le condizioni di abbandono in mare di naufraghi nelle acque del Mediterraneo centrale, per effetto degli accordi intercorsi nel tempo tra l’Italia ed il governo di Tripoli. Si è permesso alle milizie libiche di spadroneggiare anche in acque internazionali, ostacolando gli interventi di soccorso operati dalle poche ONG che ancora sono in grado di esercitare la libertà di navigazione e di garantire il rispetto degli obblighi di salvataggio imposti dal diritto internazionale. Dove sono finite le navi della missione italiana Mare sicuro? Che cosa vedono gli aerei delle operazioni Frontex ed Eunavfor Med che controllano continuamente le acque del Mediterraneo centrale? Sono tutti convinti che basti spegnere i transponder, e dunque non essere più tracciabili, per non intervenire tempestivamente quando viene lanciato un allarme?

L’aggressione alla Alan Kurdi

Secondo un comunicato emesso ieri dalla ONG See Eye, che ha anche diffuso le foto,nelle scorse ore la nave Alan Kurdi della ong Sea-Eye ha iniziato il soccorso di un gommone bianco con a bordo circa 90 persone a Nord-Ovest di Zuwara. Subito dopo che i due Rhib della Ong hanno finito di distribuire i giubbotti di salvataggio alle persone sul gommone, sono giunte sul luogo del soccorso due piccole imbarcazioni non meglio identificate. Una di queste presentava a prua una mitraglietta. Le persone a bordo di queste imbarcazioni hanno ostacolato il soccorso minacciando l’equipaggio e sparando alcuni colpi di arma da fuoco in aria e in acqua”. “Alcune delle persone presenti sul gommone si sono buttate in acqua in preda al panico. Tutte avevano indosso il giubbotto di salvataggio e sono state successivamente soccorse dai Rhib di Sea-Eye. Dopo diversi momenti di tensione, le piccole imbarcazioni hanno lasciato la zona. L’equipaggio della Alan Kurdi ha quindi completato il soccorso delle persone a bordo del gommone portandole a bordo della nave”.

Una seconda imbarcazione con a bordo decine di persone, intercettata nella stessa zona, sarebbe stata bloccata dai libici. Sembra che questi naufraghi siano stati riportati a Zuwara, ma non si hanno notizie certe sulla loro sorte. Per la tipologia e per la colorazione delle fiancate, le due imbarcazioni libiche intervenute contro la Alan Kurdi sparando colpi di arma da fuoco mentre erano in corso le operazioni di salvataggio potrebbero appartenere alla cosiddetta Guardia costiera di Zuwara. Il paragone con altre imbarcazioni riprese dalla stampa libica in circostanze analoghe non è difficile. Successivamente la Marina libica ha pubblicato una dichiarazione che nega il suo coinvolgimento nell’incidente, al punto da capovolgere la narrazione dei fatti. Nel loro comunicato i libici attaccano pesantemente la Alan Kurdi definendo calunniosa la denuncia dell’aggressione subita, negando al contempo che il motoscafo armato ripreso nelle foto appartenesse alla Marina libica.

Secondo la stessa fonte libica, la ONG diffonderebbe le foto dell’aggressione subita “per bloccare la cooperazione positiva” tra Italia e Marina libica. Una valutazione in linea – e non deve sorprendere – con il riconoscimento della collaborazione tra Italia e “Libia” proveniente, oltre che dai servizi, dal ministro dell’Interno Lamorgese. Come se al Viminale si ignorasse la divisione politica e militare derivante dal conflitto libico ed il pesante coinvolgimento dei guardacoste libici nel traffico di esseri umani. Ma tutto è possibile, dopo che si è appurato che il noto trafficante internazionale Bija, che adesso veste la divisa della Guardia costiera di Zawia, nel 2017 ha potuto partecipare ad incontri ufficiali sia al Viminale che presso la Centrale operativa della Guardia costiera di Roma, senza smentire la sua vera identità.

Nel comunicato della Marina libica emerge una stretta assonanza con le menzogne che si spacciano in Italia da parte dei partiti sovranisti e dei loro uffici di comunicazione, secondo cui la zona SAR (Search and Rescue) impropriamente riconosciuta alla “Libia” sarebbe una zona nella quale le autorità di quel Paese potrebbero esercitare una piena sovranità, come se si trattasse di acque territoriali ( 12 miglia dalla costa), fino al punto di bloccare gli interventi dei mezzi di soccorso delle ONG. L’aggressione alla Alan Kurdi è avvenuta a 17 miglia dalla costa, dunque in acque internazionali, ed il comportamento dei miliziani che hanno aperto il fuoco (in aria) mentre una nave umanitaria stava soccorrendo naufraghi è assimilabile ad un atto di pirateria internazionale.

La zona di mare corrispondente alla cosiddetta zona SAR libica non sono “acque libiche”, e comunque, quando si tratta di portare soccorsi a naufraghi, perché questa è la condizione giuridica di persone a bordo di mezzi sovraccarichi privi di mezzi di salvataggio, il comandante della nave soccorritrice può, anzi deve, fare ingresso nelle acque territoriali di un altro Stato, sempre facendo salvo l’obbligo di sbarcare i naufraghi in un “porto sicuro” (Place of Safety) che, a fronte delle testimonianze che si accumulano da anni, non può certo essere in Libia.

Il mezzo intervenuto contro la Alan Kurdi potrebbe appartenere alla sedicente guardia costiera della raffineria di Zawiya, la cui area operativa va da Zuwara a oltre 250 km a est di Al-Khums. Le immagini raccolte consentiranno la identificazione del mezzo e degli aggressori. Sembra comunque che si sia intensificata la collaborazione tra le diverse guardie costiere che dipendono dalle milizie che controllano le città libiche (Zawia, Khoms e Zuwara tra le altre) schierate con il governo Serraj a Tripoli, ancora sotto attacco dall’esercito (LNA) del generale Haftar che è arrivato alle porte della capitale. Rimangono però da chiarire gli attuali rapporti tra la “Marina libica” e le diverse guardie costiere delle città, dopo che l’avanzata delle truppe del generale Haftar a terra hanno reso cruciale il controllo delle acque costiere ed internazionali, spazi di trasporto (e contrabbando) di armi e petrolio, oltre che di persone. Di certo il numero delle persone bloccate dai libici in acque internazionali e riportato a tetra supera il numero di coloro che arrivano direttamente o sono soccorsi da mezzi militari, ed in minima parte dalle navi umanitarie delle ONG.

Il soccorso operato dalla Open Arms

Sempre nella giornata di ieri, mentre alla Ocean Viking si continuava a negare la indicazione di un porto sicuro di sbarco, dopo sei giorni di stallo in acque internazionali, la Open Arms soccorreva 45 migranti che da ore chiamavano aiuto, a 32 miglia a sud da Lampedusa. Una distanza che i mezzi veloci della Guardia Costiera di stanza sull’isola avrebbero potuto compiere in meno di un ora. Ma per le autorità italiane i soccorsi erano di competenza di Malta, in una zona SAR ancora controversa tra le diverse autorità marittime, anche se le Convenzioni internazionali impongono il dovere di collaborazione tra gli stati, al fine primario di salvaguardare la vita umana in mare. Come al solito, le autorità de La Valletta non hanno risposto alle richieste di un porto sicuro di sbarco. Malta si assume la responsabilità per coloro che sono stati salvati da Open Arms ma non concede alla nave Ong un porto sicuro di sbarco. Domani sono infatti previsti trasferimenti su una nave AFM della Marina maltese con trasbordo dalla Open Arms che sarà effettuato al di fuori delle acque territoriali maltesi che rimarranno pertanto “chiuse”.

L’Unione europea, l’Italia e la Libia

Per contrastare quella che viene definita soltanto come “immigrazione illegale”, e per dimostrare un effettivo controllo dei “flussi migratori”, si sono ritirati tutti gli assetti navali militari italiani ed europei che in passato garantivano sorveglianza e soccorso, e si è perfezionata la collaborazione con la sedicente Guardia costiera “libica”, per delegare alle motovedette di Tripoli o di Zawia respingimenti collettivi che sarebbero altrimenti sanzionabili se fossero effettuati sotto il coordinamento operativo di Stati, come l’Italia, sottoposti alla giurisdizione della Corte Europea dei diritti dell’Uomo.

L’Unione Europea peraltro, ancora priva di una Commissione nel pieno dei suoi poteri, dimostra una totale incapacità nel garantire gli interventi di soccorso nel Mediterraneo centrale ed una qualsiasi influenza sul processo di riconciliazione tra le diverse fazioni libiche. In questo modo non si garantisce né in Libia, né altrove, quello che si definisce come “stato di diritto” al quale dovrebbe essere ancorato il rispetto del principio di legalità nella lotta contro il traffico di esseri umani. In tutti i paesi di transito verso il Mediterraneo, ed in Libia in particolare, la corruzione tra i politici e le collusioni con i trafficanti, per queste ragioni, prosperano, malgrado i continui proclama dei capi di governo. A pagare sono sempre e soltanto i migranti, con i loro corpi.

Le dichiarazioni di numerosi naufraghi soccorsi dalle ONG e recenti interviste in Italia condotte dall’UNHCR confermano che persone sbarcate a terra da mezzi della sedicente guardia costiera “libica”, dopo essere state intercettate in acque internazionali, sono state immediatamente vendute ai trafficanti, e queste testimonianze si ripetono giorno dopo giorno, sempre più circostanziate, rese da naufraghi provenienti da Tripoli, da Zawia e da Bani Walid.

La situazione in Libia intanto appare sempre più caotica con rischi gravissimi per i civili e per i migranti ingabbiati tra le diverse milizie che si contendono il territorio, mentre in mare non sono neppure chiari i rapporti tra la cosiddetta Marina “libica” e le diverse guardie costiere che fanno capo alle singole città e che svolgono anche il compito di garantire i mezzi di servizio delle piattaforme offshore e la sicurezza delle navi commerciali che trasportano petrolio dai terminali verso l’Europa. Appare comunque certo che numerose operazioni della Guardia costiera di Tripoli sono monitorate dagli assetti aerei delle missioni europee Frontex ed Eunavfor Med, e coordinate da bordo delle navi della missione italiana Nauras che, a rotazione, fanno base nel porto militare di Abu Sittah a Tripoli.

Secondo il direttore dell’Agenzia Frontex Fabrice Leggeri, “Frontex non può proporre un’operazione marittima e intervenire con delle imbarcazioni di Guardia costiera senza un accordo previo del luogo di sbarco. Quindi non possiamo inviare imbarcazioni, non possiamo iniziare un’operazione senza un accordo previo sul luogo di sbarco, soprattutto nelle situazioni in cui riguarda eventuali migranti illegali che verrebbero salvati in mare – ha spiegato ancora Leggeri – Però non c’è alcun vuoto giuridico, la legge del mare è molto chiara: le persone salvate devono essere trasportate al porto sicuro più vicino”. “Come direttore esecutivo dell’agenzia non è appannaggio mio decidere se la Libia sia un porto sicuro o no. Non ho mai detto però che lo sia”, ha spiegato ancora Leggeri. Su questo punto è intervenuto Michael Shotter, direttore nella Commissione Ue per le migrazioni e la protezione, ribadendo chela posizione della Commissione Ue è che la Libia non è un porto sicuro”.

Per comprendere quanto sta avvenendo oggi nel Mediterraneo centrale e per verificare la gravità delle conseguenze derivanti dalla proroga degli accordi tra Italia e governo di Tripoli, che si potrebbe verificare il prossimo 2 novembre in assenza di una contraria volontà del governo o del Parlamento italiano, conviene ripartire dal 2017, anno cruciale nei rapporti tra Italia e governo di Tripoli (GNA). In quell’anno, il 2 febbraio, veniva sottoscritto il Memorandum d’intesa tra Italia e Libia, poi ratificato dai ministri del Consiglio europeo presenti alla Conferenza di Malta del 3 febbraio 2017, e contestualmente si diffondeva la campagna di criminalizzazione delle ONG, culminata poi nell’adozione del cosiddetto “Codice di condotta Minniti”, e nel coevo sequestro penale della nave umanitaria Iuventa nel porto di Lampedusa, il 3 agosto di quello stesso anno. Lo stesso anno, si ricordi, in cui la delegazione libica con il noto (anche allora) trafficante Bija faceva il suo ingresso in Italia visitando il CARA di Mineo, la sede di Roma della Guardia Costiera italiana, ed il Ministero dell’Interno.

Sempre nello stesso periodo la Libia diventava il primo membro extraeuropeo a unirsi al “Sea Horse Mediterraneo. La guardia costiera libica otteneva quindi l’accesso alle informazioni dai servizi e del sistema di sorveglianza europeo Eurosur. Dati di intelligence provenienti tra l’altro dalle missioni militari dell’UE, dall’agenzia di frontiera UE Frontex, nonché dal comando Africom degli Stati Uniti a Stoccarda e dal centro satellitare dell’UE SatCen.

Sempre nel 2017 partiva la missione Nauras della marina militare italiana, da allora presente con una unità navale nel porto di Tripoli, nel quadro della operazione Mare Sicuro, allo scopo di “fornire supporto alle forze di sicurezza libiche per le attività di controllo e contrasto dell’immigrazione illegale e del traffico di esseri umani mediante un dispositivo aeronavale e integrato da capacità ISR (Intelligence, Surveillance, Reconaissance). In particolare, la missione ha i seguenti compiti, che si aggiungono a quelli già svolti dal dispositivo aeronavale nazionale apprestato per la sorveglianza e la sicurezza nell’area del Mediterraneo centrale: “– protezione e difesa dei mezzi del Consiglio presidenziale / Governo di accordo nazionale libico (GNA) che operano per il controllo/contrasto dell‘immigrazione illegale, distaccando, una o più unità assegnate al dispositivo per operare nelle acque territoriali e interne della Libia controllate dal Consiglio presidenziale / Governo di Accordo Nazionale (GNA) in supporto a unità navali libiche; – ricognizione in territorio libico per la determinazione delle attività di supporto da svolgere; – attività di collegamento e consulenza a favore della Marina e Guardia costiera libica; – collaborazione per la costituzione di un centro operativo marittimo in territorio libico per la sorveglianza, la cooperazione marittima e il coordinamento delle attività congiunte. Inoltre, potranno essere svolte attività per il ripristino dell’efficienza degli assetti terrestri, navali e aerei, comprese le relative infrastrutture, funzionali al supporto per il contrasto dell’immigrazione illegale”.

Già nel 2017, la guardia costiera “libica” veniva supportata con attrezzature e mezzi dall’Italia con l’addestramento dalla missione militare europea EUNAVFOR MED. Tra i focus della formazione c’erano missioni di ricerca e salvataggio, pronto soccorso, diritto umanitario e diritti umani. Ma questo non contribuiva certo ad un maggiore rispetto del diritto internazionale. Come era dimostrato da numerose aggressioni dei libici ad unità delle ONG mentre erano in corso attività di ricerca e salvataggio.

Il 6 novembre di quello stesso anno, la guardia costiera libica attaccava una nave della ONG tedesca Sea Watch e diversi naufraghi perivano in mare proprio per effetto della interruzione delle operazioni di soccorso. La nave della guardia costiera libica era una delle quattro motovedette Bigliani consegnate dall’Italia nel maggio 2017. Otto dei 13 membri del personale erano stati precedentemente addestrati nell’ambito dei corsi di formazione a bordo delle unità navali di EUNAVFOR MED.

Da allora ad oggi, anche dopo la creazione di una zona SAR libica, il coinvolgimento delle autorità italiane nell’assistenza e nel coordinamento delle autorità libiche si è andato progressivamente intensificando. Tanto che si potrebbe configurare una responsabilità penale per concorso nei crimini commessi dai guardiacoste libici, se non una violazione reiterata dei più elementari principi delle norme cogenti di diritto internazionale che impongono il soccorso in mare e vietano i respingimenti collettivi e lo sbarco dopo i salvataggi in porti che non si possono definire certo sicuri (place of safety). Obblighi di soccorso e doveri di collaborazione sono sanciti dalle Convenzioni internazionali, all’esclusivo fine di salvare vite umane in mare, ed anche a terra. Che non possono essere intaccati da prassi operative concordate tra due stati con Memorandum d’intesa che neppure diventano Accordi tra Stati ratificati con un voto del Parlamento, secondo la procedura imposta per gli accordi internazionali dall’art. 80 della Costituzione.

Per tutte queste ragioni le autorità italiane, sollecitando nello stesso senso l’Unione Europea, dovrebbero revocare le precedenti intese con la Libia e ripristinare la doverosa presenza di navi militari sulle rotte del Mediterraneo centrale in modo di garantire la primaria salvaguardia della vita umana in mare ed un maggiore controllo degli ingressi, se si vuole parlare anche di “sicurezza”. E’ noto infatti che la ricorrente accusa rivolta alle ONG, considerate come fattore di attrazione (pull factor), è stata ormai smentita. Soprattutto dopo il loro sequestro nei porti siciliani, effetto del decreto sicurezza bis che ancora rimane in vigore, gli arrivi sono comunque aumentati ,con una miriade di sbarchi isolati, e purtroppo con un notevole incremento percentuale delle vittime causate dalla rarefazione dei mezzi delle unità navali che potevano prestare soccorso (o, nel caso dei mezzi militari, dalla loro invisibilità).

Sembra sempre più urgente, alla luce dei fatti emersi in queste ultime settimane, che le imbarcazioni delle ONG ancora sotto sequestro vengano liberate, in modo che possano tornare a dare il loro contributo alle attività di ricerca e salvataggio nelle acque del Mediterraneo centrale. Come avveniva fino al 2017, prima che si scatenasse l’onda mediatica e giudiziaria contro le ONG e tutti coloro che operavano a diverso titolo nel campo della solidarietà.

Il delitto di solidarietà non esiste e non si può introdurre per via giudiziaria. Sarebbe anche auspicabile, e su questo saremo impegnati a vigilare, che i processi tuttora in corso contro chi si è reso “responsabile” soltanto di attività di salvataggio di vite umane in mare, siano rapidamente definiti, chiarendo fatti e responsabilità che sono state fin qui nascoste o inquinate per il ruolo avuto dai servizi segreti italiani nell’avvio di procedimenti penali come quello in corso ancora oggi a Trapani contro i membri dell’equipaggio della nave tedesca Iuventa. Inquinamento delle prove in Italia, al quale in Libia, nello stesso periodo, corrispondeva una diffusa collusione, tra esponenti delle locali guardie costiere e trafficanti di esseri umani, che quando uscivano in mare già allora tenevano sotto minaccia delle armi le imbarcazioni delle ONG che procedevano ai soccorsi in acque internazionali. Come si verificava anche nel caso della Iuventa.

Oggi come allora la storia sembra ripetersi, speriamo che non provengano altri segnali di “continuità” dalla proroga degli accordi tra l’Italia ed il governo di Tripoli e delle intese operative di collaborazione con la Guardia costiera “libica”. Comunque vada a livello politico, rimarrà centrale il ruolo della giurisdizione che ha già affermato la contrarietà degli accordi con la Libia rispetto al diritto internazionale di natura cogente.

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