X

“Law enforcement” in mare, prassi di polizia che lasciano morire

Uno dei velivoli da ricognizione di Frontex, l'agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne dell'Unione

di Fulvio Vassallo Paleologo

Con riferimento alla mobilità dei migranti si definiscono attività di law enforcement le operazioni di polizia nel contrasto di quella che si suole definire “immigrazione illegale”, al fine di impedire l’ingresso di stranieri sprovvisti di visto, o comunque di una qualsiasi autorizzazione, nel territorio dello stato, e di arrestare trafficanti e scafisti. Queste attività vengono disciplinate a livello di ordinamenti interni e da norme contenute in Direttive ( come la Direttiva 2008/115/CE sui rimpatri) e in Regolamenti dell’Unione Europea. Risulterebbe importante per la realizzazione di questa finalità una intensa cooperazione giudiziaria tra gli stati, anche con quelli che non appartengono all’Unione Europea, ma questa di fatto manca, e non brilla neppure la collaborazione tra le diverse polizie europee e le autorità giurisdizionali. Eppure si accumulano faldoni su faldoni di intercettazioni.

Secondo le Convenzioni internazionali, a partire dai Protocolli allegati alla Convenzione di Palermo contro il crimine transnazionale di Palermo del 2000, le attività di contrasto nei confronti del traffico e della tratta di esseri umani devono svolgersi nel rispetto dei diritti fondamentali della persona, soprattutto del diritto alla vita, e del diritto a fare comunque ingresso nel territorio di uno stato, per presentare una istanza di protezione internazionale. Diritto fondamentale sancito dalla Convenzione di Ginevra che vieta all’art. 33 il respingimento dei richiedenti asilo. Il principio di non respingimento è rinforzato dalla previsione del Quarto Protocollo allegato alla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e dal’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che vietano i respingimenti collettivi.

I Regolamenti europei n.626/2024 e 1624/2016 che disciplinano l’agenzia per il controllo delle frontiere esterne FRONTEX, oggi ridefinita “Guardia di frontiera e costiera europea”, sanciscono espressamente la prevalenza delle norme dettate dalle Convenzioni internazionali in materia di diritti umani sulle norme statali o internazionali che mirano a contrastare l’immigrazione irregolare, appunto quel sistema normativo e quelle prassi che si possono definire come “law enforcement”. Oggi si assiste al tentativo, già a livello di Consiglio dell’Unione Europea, di accantonare i rilevanti obblighi di soccorso previsti a carico degli assetti operativi delle missioni Frontex dai Regolamenti europei n.656/2014 e n. 1624/2016 (adesso abrogato), per accentuare la collaborazione con i paesi terzi e la funzione di indagine e collegamento con diverse agenzie investigative, in primis con Eurosur ed Europol, attività di polizia riconducibili al concetto di “law enforcement”.

Comunque, secondo l’art. 71 del nuovo Regolamento sulla Guardia di frontiera e costiera europea n. 2019/1896 adottato il 13 novembre 2019,  “gli Stati membri e l’Agenzia cooperano con i paesi terzi ai fini della gestione europea integrata delle frontiere e della politica in materia di migrazione. Sulla base delle priorità politiche definite ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 4, l’Agenzia fornisce assistenza tecnica e operativa ai paesi terzi nell’ambito della politica dell’Unione in materia di azione esterna, anche per quanto riguarda la protezione dei diritti fondamentali e dei dati personali e il principio di non respingimento. L’Agenzia e g li Stati membri osservano il diritto dell’Unione, tra cui norme e standard che fanno parte dell’acquis dell’Unione, anche quando la cooperazione con i paesi terzi avviene nel territorio di tali paesi terzi“. Come specifica successivamente l’art. 73 “nel cooperare con le autorità di paesi terzi di cui al paragrafo 1 del presente articolo, l’Agenzia agisce nell’ambito della politica dell’Unione in materia di azione esterna, anche con riferimento alla protezione dei diritti fondamentali e dei dati personali, al principio di non respingimento, al divieto di trattenimento arbitrario e al divieto di tortura e di trattamenti o pene inumani o degradanti”.

Sorprende che le violazioni dei diritti fondamentali lamentati nel corso delle operazioni di Frontex ( oggi Guardia di frontiera e costiera europea) siano sostanzialmente denunciabili soltanto alla stessa Agenzia e non si ha notizia di accertamenti sanzionatori da parte degli organi di monitoraggio sul rispetto dei diritti umani, pure introdotti con il più recente Regolamento. Sembra quindi che le attività di Frontex continuino a sottrarsi all’esercizio di una giurisdizione effettiva. Rimane soltanto da verificare se almeno la Corte dei Conti europea potrà conoscere e valutare le attività di cooperazione con i paesi terzi realizzate dall’Agenzia ed il relativo costo economico. Diverse organizzazioni della società civile hanno chiesto da tempo alla Corte dei Conti europea una verifica della spesa affrontata dall’Unione europea per sostenere la sedicente Guardia costiera libica.

Nel corso degli ultimi anni abbiamo assistito ad un continuo espandersi dei compiti affidati all’agenzia FRONTEX, con un crescente finanziamento garantito dall’Unione Europea, mentre progressivamente l’agenzia si sottraeva ad un effettivo controllo da parte del Consiglio e della Commissione europea, fino a rivendicare la sostanziale irresponsabilità dei suoi agenti per gli atti compiuti nell’esercizio delle loro attività operative. L’Agenzia poteva così instaurare rapporti diretti con le autorità di paesi terzi, al fine di rendere più efficaci le attività di “law enforcement” sia per impedire l’ingresso nel territorio dello stato, che per eseguire i rimpatri con accompagnamento forzato dei migranti irregolari nei paesi di origine. Malgrado la previsione di organi consultivi che avrebbero dovuto verificare la compatibilità delle attività dell’agenzia con il rispetto effettivo dei diritti umani, si verificava, e si continua ad accentuare, una sostanziale mancanza di dati informativi sulle operazioni realizzate, motivata di volta in volta dall’esigenza di non pregiudicare le finalità repressive perseguite.

Questa situazione si è andata aggravando da quando nel 2015 l’agenzia Frontex ha cominciato a ridurre le sue attività di ricerca e salvataggio in mare, sia per gli accordi stipulati tra gli Stati dell’Unione Europea e la Turchia, che per la criminalizzazione dei soccorsi nel Mediterraneo centrale, indotta da report predisposti da Frontex alla fine del 2016, e poi, a seguito del Protocollo d’intesa tra Italia e governo di Tripoli, nel marzo del 2017, si verificava il progressivo ritiro delle 9 unità navali impegnate nell’operazione Triton ( dal 2015 al 2017).

L’operazione Themis di Frontex, avviata nel 2018, segnava il ritiro delle imbarcazioni militari messe a disposizione dagli Stati, che fino ad allora avevano garantito il soccorso di decine di migliaia di persone in fuga dalla Libia, in operazioni condivise con le navi delle Organizzazioni non governative e sotto il coordinamento del Comando centrale della guardia costiera italiana di Roma (IMRCC). Dal mese di marzo del 2019 venivano ritirati tutti gli assetti navali e le attività di Frontex nel Mediterraneo centrale si concentravano, oltre che sul tracciamento aereo , su scafisti, migranti irregolari e su tutti coloro che prestavano loro assistenza, anche a terra, al fine di dare conto all’opinione pubblica di qualche risultato effettivo, rispetto alle risorse sempre più ingenti che venivano destinate all’agenzia. In realtà, come dimostrano i dati numerici degli sbarchi e gli esiti dei processi penali, anche di quelli intentati contro gli operatori umanitari, i risultati dell’impegno di Frontex contro l’immigrazione irregolare risultava assolutamente fallimentare e del tutto irrilevante rispetto alle catene criminali che si spostavano a seconda della situazione politica e militare da un paese all’altro, da ultimo trasferendosi in parte dalla Libia alla Tunisia.

Analogo esito fallimentare risultava quello dell’operazione Eunavfor Med Sophia, e non diverso sembra il risultato della più recente missione europea IRINI che, operando anche in collegamento con Frontex, dovrebbe applicare l’embargo contro la Libia, oltre a contrastare il terrorismo ed il traffico di persone e di merci di contrabbando. Il calo degli arrivi nell’Unione Europea è derivato più dal venir meno dei push factor, come l’esodo di siriani, e dal blocco delle rotte di terra operato dalla Turchia e poi dalla Grecia, che non dalle attività di law enforcement di Frontex sulla rotta del Mediterraneo centrale, sulla quale ha influito, oltre alla politica dei “porti chiusi” adottata dai governi italiani, la chiusura delle frontiere della Libia con gli stati confinanti, e la conseguente limitazione delle partenze per effetto della guerra civile che di fatto divide il paese in tre parti. Adesso si dovranno verificare gli effetti della presenza di una consistente flotta turca davanti le coste libiche.

Mentre in modo sempre più evidente e documentato le attività di Frontex nel Mediterraneo centrale si riducono al monitoraggio delle imbarcazioni partite dalle coste libiche al fine di favorire l’intercettazione da parte dei mezzi della sedicente guardia costiera libica, ancora priva di una centrale di coordinamento unica (MRCC) per l’intera zona di ricerca e salvataggio (SAR) impropriamente riconosciuta a questo paese dall’ IMO nel mese di giugno del 2018, aumentano le stragi in mare, rispetto ad un numero assai esiguo di persone che ancora riescono a fuggire dalla Libia. Ed aumentano anche i casi di intervento delle motovedette libiche, in parte donate ed assistite dall’Italia che è presente a Tripoli con la missione Nauras di Mare Sicuroche bloccano in acque internazionali i natanti sovraccarichi e dunque in evidente situazione di distress immediato, a bordo dei quali si trovano i migranti e li riconducono nei porti libici. Dopo lo sbarco a terra, come è documentato dall’OIM (Organizzazione internazionale delle migrazioni) la maggior parte di queste persone, donne e bambini compresi spariscono, e ritornano ancora nelle mani dei trafficanti, dai quali vengono torturati ed estorti, se non vengono costrette, nel caso dei giovani, all’arruolamento forzato per una delle diverse milizie in guerra.

Si può quindi verificare come le attività di law enforcement oggetto del mandato principale dell’agenzia Frontex, con un crescente impegno di budget, si traducano in prassi di polizia che agevolano il ritorno dei naufraghi verso i porti libici, quando sia l’OIM che l’UNHCR hanno espressamente dichiarato che la Libia non offre porti sicuri di sbarco e che gli stati dovrebbero astenersi da qualsiasi pratica di respingimento che comporti il rientro dei migranti nei porti dai quali sono fuggiti. Quello che vale per gli Stati non vale forse per gli assetti operativi di Frontex che collaborano con le autorità libiche?

Quando le imbarcazioni dei migranti riuscivano ad entrare nella vastissima zona di ricerca e salvataggio attribuita a Malta gli assetti di Frontex hanno continuato a collaborare con le autorità maltesi anche quando queste hanno effettuato respingimenti collettivi illegali verso le coste libiche, avvalendosi di una piccola flottiglia di pescherecci fantasma privi di segni identificativi che operavano nella zona SAR maltese. Le autorità italiane intanto mantenevano nel porto militare di Tripoli, la nave Gorgona della missione Nauras di Mare Sicuro della Marina militare, anche nei giorni in cui i bombardamenti imperversavano attorno alla zona portuale, ed è provato da almeno due anni, che da questa nave si snodano, oltre alle attività di manutenzione delle motovedette libiche, reti di informazione che collegano la Centrale di coordinamento della Guardia costiera di Roma (IMRCC) con gli assetti navali libici operativi nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale.

Gli accordi più recenti stipulati da Malta con il governo di Tripoli, ricalcano le linee di comando e lo schema degli ufficiali di collegamento che caratterizzano gli accordi tra Italia e Libia, dai Protocolli operativi del 2007 fino al Memorandum d’intesa del 2 febbraio 2017. La decisione del governo italiano di “chiudere i porti”, dichiarandoli “non sicuri”, adottata il 7 marzo 2020 a seguito dell’emergenza COVID-19, veniva puntualmente seguita da analoga decisione adottata da Malta pochi giorni dopo. Queste ultime decisioni rendevano ancora più residuale il ruolo di soccorso delle navi umanitarie delle ONG, due delle quali rimangono ancora bloccate in porto a Palermo, per un fermo amministrativo e favorivano la eliminazione di testimoni indiscreti che potessero denunciare le pratiche di coordinamento dei respingimenti collettivi operati in sinergia dalla sedicente guardia costiera libica e dalle autorità europee (FRONTEX) , maltesi ed italiane. A compimento di questa strategia europea di eliminazione dei testimoni dei numerosi casi di omissione di soccorso e di morte in mare come conseguenza dell’abbandono alle motovedette libiche, giunge adesso una ordinanza adottata dalle autorità tedesche che rende più difficile l’utilizzo di navi private per attività di ricerca e salvataggio. Come se l’obbligo di soccorrere i naufraghi in mare non fosse un obbligo primario di qualsiasi comandante di una nave, quale che sia la classificazione nei registri navali dell’unità sulla quale si trova.

Non esiste comunque alcuna emergenza sbarchi nel Mediterraneo, Come riferisce l’Ansa, “secondo quanto fa sapere Frontex, sono stati 4.300 i migranti irregolari che hanno raggiunto l”Europa a maggio, la maggior parte (1.250) utilizzando la rotta del Mediterraneo orientale. Altri 1.000 sono invece arrivati dal flusso che attraversa il Mediterraneo centrale, raddoppiando quasi il numero del mese precedente. Dal Mediterraneo occidentale sono arrivate 650 persone, e dai Balcani 900. In ogni caso il numero degli arrivi dei primi cinque mesi (31.600) è del 6% più basso dello stesso periodo dello scorso anno” (ANSAmed). L’aumento degli arrivi a Lampedusa nel mese di giugno corrisponde ad un fenomeno stagionale noto da anni e nella sua effettiva consistenza numerica non dovrebbe destare particolari allarmi. La crisi migratoria che potrebbe essere indotta dalla diffusione del Covid-19 ha ben altri fronti e sono gli aeroporti internazionali ed i porti commerciali.

Eppure secondo l’analisi rischi per il periodo 2020-2022 pubblicata recentemente dall’agenzia, “Tra le sfide previste da Frontex vi sono gli effetti delle pandemie e dei migranti che si organizzano o vengono utilizzati per sfidare i regimi di frontiera. Altre potenziali sfide includono la possibilità di un aumento del numero di migranti irregolari dopo essere caduti ogni anno dal 2015 e l’obiettivo di ridurre notevolmente i flussi di passeggeri attraverso le frontiere”. Una prospettiva che dice tutto sulle priorità che l’agenzia Frontex perseguirà in questi anni, soprattutto nei rapporti con le guardie costiere dei paesi terzi. Mentre nel Mediterraneo orientale la presenza di Frontex risulta più manifesta, anche nelle attività di respingimento collettivo, nel Mediterraneo centrale le attività di law enforcement svolte dagli agenti europei si svolgono sotto la copertura degli accordi bilaterali stipulati da Italia e Malta con il governo di Tripoli.

Frontex non può continuare a scaricare le proprie responsabilità sugli stati membri con i quali collabora al fine di riportare in Libia la maggior parte dei naufraghi soccorsi nel Mediterraneo centrale.

Di fronte al cadavere di una bambina che si è trovato sulla costa libica a seguito dell’ultimo naufragio  frutto della inconsistenza della sedicente guardia costiera libica, ma anche di questa sistematica opera di rarefazione degli interventi di soccorso nel Mediterraneo centrale, per eliminare i cosiddetti pull factor e per realizzare nel modo più rigoroso le attività di law enforcement, non sembra scattata alcuna reazione nell’opinione pubblica. E neppure quelle decisioni di maggiore impegno nelle attività di soccorso che seguirono alle stragi del 2013 ed a quella del 18 aprile 2015, quando le navi dell’agenzia Frontex, allora presenti nel Mediterraneo centrale furono autorizzate ad operare di fatto fino a 24 miglia dalla costa libica.

Dal 1 ° novembre 2014, Frontex aveva coordinato un’operazione congiunta denominata Triton,con base operativa a Catania, che doveva sostituire la missione di salvataggio italiana Mare Nostrum, operante nel 2014 nel Mar Mediterraneo dopo le stragi del 3 e dell’11 ottobre 2013. Le autorità italiane rimanevano allora responsabili della missione. Altri attori coinvolti nell’operazione Triton di Frontex erano la Guardia Costiera italiana, la Marina militare e anche la Guardia di Finanza. Gli assetti “Triton”erano composti da sei navi, due velivoli di sorveglianza ad ala fissa e un elicottero per individuare i naufraghi, che Frontex continuava a definire, come oggi, “migranti illegali”. L’operazione Triton era gestita da sette squadre di ufficiali ospiti, in compiti di intelligence e di identificazione, e cinque squadre di debriefing per aiutare le autorità italiane a raccogliere informazioni su reti e percorsi di trafficanti di persone (specialmente in Libia). Nei primi mesi del 2015, il numero delle vittime sulla rotta del Mediterraneo centrale segnava un incremento di vittime senza precedenti. Si arrivava così alla più grande strage del Mediterraneo, il 18 aprile del 2015 con quasi mille morti. Solo dopo quella strage le autorità europee estendevano il campo d’intervento della missione Triton da 35 a 135 miglia a sud di Malta e Lampedusa.

Per tre mesi , dopo la strage del 18 aprile 2015, fino ad agosto dello stesso anno, non si registrarono naufragi, come documenta lo studio di Charles Heller e Lorenzo Pezzani, Death by Rescue, poi il progressivo ritiro delle unità navali di Frontex, i limiti operativi imposti alla missione Sophia di Eunavfor Med, e soprattutto l’affidamento dei soccorsi a navi commerciali, che oggi si ripropone, determinarono di nuovo un drastico aumento delle vittime sulla rotta “libica”. In queste ultime settimane, oltre ai morti in mare, aumentano le persone intercettate in acque internazionali dai libici con il supporto delle autorità italiane, maltesi ed europee, e come dicono molti, il ritorno in Libia può essere anche peggio dell’annegamento.

La riduzione dei mezzi statali di soccorso ed il blocco imposto a quasi tutte le navi umanitarie, prima con i processi penali, adesso con il fermo amministrativo, stanno rendendo il Mediterraneo centrale uno spazio di eliminazione fisica dei migranti che non si vuole fare arrivare in Europa. Uno spazio che si vorrebbe sottrarre a qualsiasi giurisdizione effettiva, soprattutto con i respingimenti collettivi, operati anche attraverso navi private, e con la esternalizzazione alle milizie delle attività di blocco in alto mare, operate da mezzi libici sotto un coordinamento europeo che si vuole nascondere ad ogni costo. Nel frattempo si tiene nascosto il ruolo effettivo della missione Nauras della Marina militare italiana ( Operazione Mare Sicuro) presente dal 2018 nel porto militare di Abu Sittah (Tripoli).

Probabilmente in Italia qualcuno sta facendo il calcolo sbagliato, ritenendo che il prevalere delle forze del Governo di Tripoli (GNA) sull’esercito del generale Haftar (LNA) possa permettere un maggiore controllo delle partenze ed una più efficace collaborazione con le autorità di Tripoli. Come se nessuno ricordasse, al pari dei crimini commessi dall’esercito di Haftar, chi sono i comandanti della guardia costiera e delle milizie alleate con Serraj, gli stessi uomini collusi con organizzazioni criminali, o direttamente rappresentanti di queste formazioni militari e marine che da anni controllano i porti di Zawia, Sabratha e Garabouli. Gli stessi personaggi che sono stati accreditati in Italia dal nostro governo e che nel 2017 sono arrivati persino a visitare la sede del Comando centrale della Guardia costiera italiana a Roma ed il Ministero dell’interno. Sembra che su tutto questo oggi sia calata una amnesia generale.

Più che la situazione di emergenza che tutto il mondo sta vivendo, e che sta comportando ovunque un incremento dei poteri di polizia attraverso la dichiarazione dello stato di emergenza, in Libia si sconta una situazione di conflitto che prescinde dalla epidemia da COVID 19 e va ben oltre la dimensione della guerra civile. Ormai a fianco dei principali contendenti Haftar con il suo esercito e le autorità di Tobruk, Serraj a Tripoli con le milizie finanziate per anni dall’Unione europea e dall’Italia, si sono schierate tutte le principali potenze del mondo. La partita sembra giocarsi soprattutto tra la Russia che sostiene, con l’Egitto, il generale Haftar e la Turchia che, con l’Iran, si è schierata con Serraj ed ha inviato ben sei navi militari, di cui nessuno osa parlare, a presidiare il mar libico. La presenza di questa flotta militare turca nella stessa zona nella quale dovrebbe operare la missione europea IRINI per contrastare il traffico di armi verso le opposte milizie libiche ha messo definitivamente in crisi non solo la missione, già fallita in partenza, ma l’intera politica estera europea in questa regione, soprattutto adesso che la Francia si è schierata di nuovo dalla parte di Haftar, criticando l’intervento turco, che invece in Italia trova non pochi sostenitori, silenti ma assai interessati. L’Eni e numerosi grossi imprenditori sperano così di difendere le proprie posizioni in Libia. Dietro le politiche migratorie di law enforcement si nascondono così interessi economici sempre più consistenti.

Come osserva Yasha Maccanico di Statewatch, “l’isolamento delle politiche migratorie e dei loro obiettivi dai loro effetti nocivi permette di continuare a perseguire scopi come “ristabilire la credibilità della politica europea sui rimpatri” o “esternalizzazione”, come se non fossero una fonte di storture e di gravi violazioni dello stato di diritto, in Europa e fuori dalle sue frontiere”.

Bisogna prendere atto del fallimento di tutte le politiche basate sulle attività di polizia rivolte al contrasto della mobilità umana, il cosiddetto law enforcement, e del costo in termini di vite umane che comportano, ma anche del costo che comportano dal punto di vista politico internazionale perchè allontanano la composizione dei conflitti ed alimentano gli scontri tra le milizie. lo dimostra quello che sta succedendo in Libia negli ultimi due anni. Se gli stati dell’Unione Europea affidano un ruolo da protagonista a personaggi che non tengono in alcun conto il rispetto dei diritti umani e che vivono in una prospettiva di guerra permanente, per aumentare la propria area di controllo politico, militare ed economico, come sta cercando di fare Erdogan in questo momento anche nel Mediterraneo centrale, non solo non si arresteranno le partenze e le stragi per abbandono in mare, ma la conflittualità sul territorio potrà soltanto aumentare. Oggi, dopo gli interventi della Russia, dell’Egitto ed il sostegno politico rinnovato dalla Francia nei confronti di Haftar, malgrado i crimini di guerra di cui si è reso responsabile, sembra sempre più probabile la sanzione internazionale della situazione di fatto della divisione della Libia, la Tripolitania da una parte e la Cirenaica dall’altra. Con uno scontro che si protrarrà ancora a lungo a sud, nel Fezzan, dove sono presenti importanti giacimenti petroliferi e dove i missili sparati dalle navi turche posizionate davanti alle coste libiche non possono arrivare. Una partita ancora aperta tra Serraj e Haftar nella quale si potrebbero inserire organizzazioni criminali, tribù locali ed affiliati alle organizzazioni terroristiche che prosperano nei paesi del Sahel confinanti con la Libia. In questo contesto le attività di “law enforcement” hanno solo rinforzato alcune milizie a scapito di altre ma non hanno certo ridotto le partenze o migliorato la condizione dei migranti intrappolati in Libia. Tantomeno è stato facilitato un percorso di riconciliazione nazionale che oggi sembra quasi impossibile.

Di fronte a questo scenario occorrerebbe permettere la sopravvivenza, con il “cessate il fuoco” e poi con accordi duraturi di pace, innanzitutto alla popolazione civile libica e restituire un minimo di sicurezza alle centinaia di migliaia di immigrati che si trovano da anni in Libia, non per attraversare il Mediterraneo, ma per lavorare in quel paese. Se le Nazioni Unite e l’Unione Europea non sono in grado di raggiungere questo risultato, è inutile che si avvitino in politiche di law enforcement allo scopo esclusivo di limitare le partenze dei migranti verso l’Europa, perchè comunque quelle partenze, dalla Libia, o dalla vicina Tunisia, continueranno, e sarà soltanto maggiore il numero delle vittime. Occorre procedere all’evacuazione dalla Libia ed alla riapertura di canali legali di trasferimento da quel paese verso altri stati del mondo, e non solo in Europa.

Occorre riavviare al più presto ed in maniera più consistente che in passato, le operazioni di resettlement, anche attraverso la sospensione temporanea del Regolamento Dublino III, in vista di una sua sostanziale modifica. Dopo gli sbarchi dei migranti nell’Europa mediterranea, devono essere garantiti trasferimenti veloci verso altri paesi dell’Unione, con un piano di distribuzione che tenga conto del numero ancora ridotto degli arrivi (rispetto agli anni dal 2013 al 2017) e della effettiva capacità di accoglienza dei 27 paesi che fanno parte dell’Unione Europea. Le situazioni scandalose in Egeo, nell’isola di Lesvos, al confine tra Turchia e Grecia sul fiume Evros, i respingimenti in Libia e gli “sbarchi autonomi” a Lampedusa, con il corollario di vittime che stiamo verificando, sono frutto degli accordi bilaterali e delle politiche di ritiro dei mezzi di soccorso.

Vanno incentivate le operazioni di ricerca e salvataggio in acque internazionali, definanziando le attività puramente repressive dell’agenzia Frontex e della missione IRINI e trasferendo queste risorse, che oggi ammontano a centinaia di milioni di euro, verso attività di soccorso in mare affidate a mezzi dei diversi stati europei, come si fece con Frontex nel maggio del 2015, con salvataggi anche nelle acque internazionali che ricadono nella cosiddetta zona SAR “libica”, da completare con lo sbarco in un porto sicuro, in Europa, come avveniva fino al 2018, e non in un porto in Africa. Va abbandonata la proposta che viene ripresentata in questo periodo anche a livello delle Nazioni Unite, dei cd.”punti di sbarco” in Libia ed in Tunsia, che potrebbero garantire “porti di sbarco sicuri”, solo per la presenza dell’OIM e dell’UNHCR. Una presenza che, come dimostra l’esperienza attuale, non garantisce il rispetto dei diritti umani delle persone riportate in Libia non appena queste persone vengono trasferite (e spesso scompaiono) dai porti di sbarco nei centri di detenzione “governativi” o “informali” direttamente gestiti dalle milizie. Luoghi dove la tortura a scopo di estorsione e gli abusi sessuali sono all’ordine del giorno.

Occorre prendere atto in definitiva della nullità degli accordi bilaterali che i diversi stati europei hanno stipulato con i paesi della sponda sud del Mediterraneo per bloccare le partenze dei migranti, anche quando era evidente il costo che comportavano in termini di vite umane ed i pesanti abusi che i migranti, e le stesse popolazioni autoctone subivano per effetto del mancato rispetto dei diritti umani in questi paesi. Una sentenza, rimasta isolata, di un Tribunale italiano ha correttamente dichiarato la nullità degli accordi tra Italia e Libia, ma non sembra che la rappresentanza politica italiana ne abbia preso atto, al punto che nel mese di febbraio di quest’anno gli accordi con la Libia sono stati rinnovati per altri tre anni.

E’ importante incrementare le attività di ricerca e soccorso a nord delle coste libiche, e va assolutamente cancellata la finzione di una zona SAR libica, ancora riconosciuta dall’IMO. Occorre ribadire a livello internazionale la garanzia per le persone soccorse in acque internazionali di essere sbarcate in un porto sicuro, come nel caso dell’Italia ha affermato la Corte di cassazione con la sentenza sul caso Rackete del 20 febbraio scorso.

Non basta che si ponga fine alla guerra contro i soccorsi in mare ed alla criminalizzazione degli operatori umanitari, che sta comportando da ultimo il blocco, con il fermo amministrativo, delle navi delle ONG. Le acque internazionali del Mediterraneo centrale non sono una zona sottratta all’applicazione del diritto internazionale, al di fuori di qualsiasi giurisdizione. Se gli Stati hanno, come hanno per effetto delle Convenzioni internazionali, obblighi di salvataggio della vita umana in mare e divieti di respingimento, i singoli agenti statali che violassero questi obblighi e questi divieti, individuati in base a quanto previsto dagli accordi bilaterali stipulati da Malta e dall’Italia con le autorità libiche, ne dovranno rispondere personalmente. Come, se si riscontrerà ancora il concorso con le autorità libiche, andranno individuate tutte le responsabilità degli operatori delle missioni di Frontex, che non possono chiedere alla Commissione europea di essere sottratti all’esercizio di qualsiasi giurisdizione, come hanno ripetutamente richiesto. Per questo la società civile si dovrà mobilitare per sostenere, oltre alle missioni direttamente mirate alle attività di soccorso in mare, altre missioni, a sud di Malta e Lampedusa, per documentare tutti i casi di ritardo nell’intervento di soccorso o di delega, anche attraverso navi commerciali, delle attività SAR alle autorità libiche.

Non si può accettare in definitiva che, a seguito delle dichiarazioni dello stato di emergenza che gli stati hanno adottato per effetto dell’emergenza sanitaria da COVID-19, le attività di law enforcement per contrastare gli arrivi dei migranti in Europa via mare rimangano del tutto sottratte al diritto sovranazionale ed a qualsiasi controllo giurisdizionale, ovunque si siano svolte. Non è una questione che riguarda soltanto il bene primario della vita dei migranti o i rapporti tra stati, con le pur rilevanti conseguenze politiche e d economiche. E’ una questione cruciale per la democrazia in Europa e per la pace nel Mediterraneo.

Associazione Diritti e Frontiere:
Related Post