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Sette vite come il califfo

Un composita con Al Baghdadi ed Osama Bin Laden

di Mauro Seminara

Il califfo nero, il male in persona, l’ispiratore del terrorismo mondiale è stato ucciso. Anzi, si sarebbe fatto esplodere prima della cattura. Poi, come per Bin Laden, ucciso quando tutti lo avevano dimenticato ma un presidente americano aveva bisogno di una spintarella elettorale, i presunti brandelli del califfo nero sarebbero stati gettati in mare. Così, giusto per evitare che qualcuno possa dire “non è vero”. Ed il dubbio ci starebbe pure, visto che Al Baghdadi pare abbia sette vite come i gatti. Il capo dell’Isis era infatti già stato ucciso, qua e là, da questo e da quello. Certo, il numero maggiore di volte in cui Al Baghdadi è morto è stato per mano americana. Ci mancherebbe. Anche i russi però una vita o due gliela avevano tolta. Adesso fare il conto di quante vite gli rimangono, su due piedi, non è facile. Ma è di contro presumibile che Al Baghdadi possa tornare tra un mesetto o due, all’occorrenza. Esattamente come accaduto in passato, e non soltanto ad Al Baghdadi. Anche il suo celeberrimo predecessore, Osama Bin Laden, era stato ucciso un po’ qua ed un po’ là. Ed ogni volta, a distanza di qualche mese dal trionfale annuncio, spuntavano video del capo dei taleban che riaprivano all’ipotesi di un sequel. Come per quei film andati bene al botteghino per i quali ci si deve inventare un nuovo capitolo anche se l’epilogo ideato dagli sceneggiatori vedeva morire i protagonisti.

La morte di Al Baghdadi, l’ultima in ordine di tempo, arriva in un momento in cui il presidente americano – come il suo predecessore – ha bisogno di capitalizzare il consenso in vista delle nuove elezioni. Ma anche mentre i focolai di rivolta illuminano il mondo capitalistico che conosciamo. In Spagna, Stato membro dell’Unione europea, i catalani non accettano che per aver preso le parti di una popolazione che intendeva autodeterminarsi siano stati condannati alla media di dieci anni di reclusione i loro rappresentanti politici. E Barcellona con 350mila persone in strada pronte alla guerra contro quelle forze dell’ordine inviate da Madrid, che già prima del referendum consultivo sull’indipendenza della Catalogna si erano prodigati in manganellate e gravi atti di violenza repressiva, sono un’immagine più che esaustiva del concetto di democrazia europea. In Cile è ormai difficile contare i morti, vittime della più violenta insurrezione popolare dai tempi di Pinochet. Anche lì, in Sud America, il gioco del capitalismo non ha prodotto altro che povertà e disuguaglianze sociali. Poco più su, nello stesso continente c’è il Venezuela, ridotto alla fame come madre natura non avrebbe mai potuto pensare, visto il dono di oro nero che era stato fatto ai venezuelani. Il maggior produttore mondiale di petrolio, unico superproduttore del continente americano, grazie al gioco del petroldollaro USA non sa più come placare i morsi della fame che attanagliano il popolo. E la soluzione, come sempre, quando il presidente Nicolas Maduro – già delfino dell’amatissimo Hugo Chavez – ha tentato di condurre il Venezuela fuori dallo sfruttamento americano, è stata quella di un rivoluzionario imbellettato a Washington per rovesciare il governo ostile allo schiavista.

In Libano, nazione piccola e piena di rifugiati all’inverosimile, costretta alla fame e schiacciata tra i giochi di potere e conquista del Medio Oriente, il popolo è esausto ed ha deciso di scendere in strada per dare vita anch’esso ad una guerriglia contro lo sfruttamento di Stato. In Africa l’elenco è lungo e per questo è forse il caso di limitarsi a ricordare che è uno dei continenti con cui la natura era stata in assoluto più generosa ed allo stesso tempo il continente che conta in assoluto il maggior numero di persone che migrano per disperazione, guerre, terrorismo, fame, insicurezza. Ci sarebbero poi da ricordare le guerre. Quelle, strano a dirsi, nel ventunesimo secolo, sono davvero tante. La più recente è quella avviata di punto in bianco dalla Turchia, ma c’è quella in Libia, quella nel Corno d’Africa, quella in Yemen… Tutte guerre in cui, in un modo o nell’altro, sono coinvolti membri della Nato e comunque superpotenze militari. In questo contesto globale è nuovamente morto il califfo nero, Al Baghdadi. Segno che al momento non serve più, oppure che per il futuro ci sono nuovi piani. D’altro canto, la Siria non è stata espugnata neanche con il massiccio contributo economico d’oltreoceano di cui i terroristi dell’Isis hanno goduto dalla prima comparsa nel sud della Siria e per tutti gli otto anni di guerra mondiale con cui lo Stato di Bashar al-Assad è stato aggredito. I siriani non hanno inteso cadere nel gioco della separazione non pacifica tra diverse confessioni religiose e non hanno quindi avviato una scissione con fazioni avverse al presidente Assad.

La Siria era e rimane uno Stato laico in cui convivono varie fedi religiose come il cristianesimo, l’islamismo ed altre minoranze. Ma, se la Siria ha resistito ad otto anni di bombardamenti, non è detto che resista l’Italia a pochi anni di propaganda. Nella culla della cultura, ormai tempio dell’ignoranza, il seme dell’odio razziale ha già attecchito. Perfino il Pontefice ha difficoltà nel farsi ascoltare da una folta parte di sedicenti cristiani ormai in preda al delirio e che ogni giorno invocano politiche religiose degne delle crociate di nefasta memoria. Lo si vede con la miserabile invettiva scagliata contro Liliana Segre e Gad Lerner, contro tutti i musulmani presenti in Italia (anche se in realtà molti sono cristiani dalla pelle scura) e contro lo stesso capo della Chiesa cristiana cattolica, reo di non essere un integralista che benedice l’odio contro il prossimo per distinzione religiosa. Effettivamente, in Siria il grado di istruzione media era più elevato che in Italia e scuole ed università erano gratuiti (come si conviene in una nazione vittima di un terribile dittatore). In un’epoca in cui tutto scorre veloce, la strategia della tensione mediante eserciti terroristi – come quello dei Taleban e quello dell’Isis – è roba vecchia. Superata. Adesso serve altro per indurre i popoli alla paura e costringerli ad invocare protezione. Adesso serve che invece di fare in modo che il popolo chieda protezione dal terrorista straniero, che si schianta con un aereo su un grattacielo o con un camion sui pedoni, esso implori protezione da se stesso e dal proprio vicino di casa. La paranoia è sempre il miglior alleato dell’antico motto latino “divide et impera”, dividi e conquista.

Mauro Seminara: Giornalista palermitano, classe '74, cresce professionalmente come fotoreporter e videoreporter maturando sulla cronaca dalla prima linea. Dopo anni di esperienza sul campo passa alla scrittura sentendo l'esigenza di raccontare i fatti in prima persona e senza condizionamenti. Ha collaborato con Il Giornale di Sicilia ed altre testate nazionali per la carta stampata. Negli anni ha lavorato con le agenzie di stampa internazionali Thomson Reuters, Agence France-Press, Associated Press, Ansa; per i telegiornali nazionali Rai, Mediaset, La7, Sky e per vari telegiornali nazionali esteri. Si trasferisce nel 2006 a Lampedusa per seguire il crescente fenomeno migratorio che interessava l'isola pelagica e vi rimane fino al 2020. Per anni documenta la migrazione nel Mediterraneo centrale dal mare, dal cielo e da terra come freelance per le maggiori testate ed agenzie nazionali ed internazionali. Nel 2014 gli viene conferito un riconoscimento per meriti professionali al "Premio di giornalismo Mario Francese". Autore e regista del documentario "2011 - Lampedusa nell'anno della primavera araba", direttore della fotografia del documentario "Fino all'ultima spiaggia" e regista del documentario "Uomo". Ideatore e fondatore di Mediterraneo Cronaca, realizza la testata nel 2017 coinvolgendo nel tempo un gruppo di autori di elevata caratura professionale per offrire ai lettori notizie ed analisi di pregio ed indipendenti. Crede nel diritto all'informazione e nel dovere di offrire una informazione neutrale, obiettiva, senza padroni.
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