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    Categories: Editoriali

Noi siamo un popolo…

di Mauro Seminara

Noi siamo un popolo a cui piace ricordare gli eroi. Non tutti, certo. Sarebbero troppi e ci annoierebbero. No. Ne scegliamo qualcuno, magari uno per categoria, e ce lo nutriamo e custodiamo come un santino, anno dopo anno, nel ricordo del suo grande atto eroico. Piuttosto, è averceli in mezzo ai coglioni che ci dà fastidio. Perché a noi gli eroi piacciono martiri, cioè morti, non vivi. Se gli eroi sono vivi non ci si può limitare ad applausi e belle parole in memoria. Se sono vivi bisogna scegliere. Bisogna prendere una posizione, quindi un impegno. Che palle! Per intenderci, prendiamo ad esempio Giovanni Falcone, di cui domani ricorre il ventiseiesimo anniversario. Ovviamente anniversario di morte, della Strage di Capaci. Giovanni Falcone, da vivo, era un gran rompipalle. E in quanto tale, Falcone, secondo molti, stampa inclusa, si metteva le bombe – all’Addaura – da solo per ottenere maggiore visibilità ed accreditarsi quale vero paladino antimafia. Gli diedero contro tutti, quando era vivo. Perfino la stampa che lo incontrava ogni giorno al Palazzo di Giustizia di Palermo lo definiva sostanzialmente un cazzaro. Il primo “maxi-processo”, frutto del lavoro di quel pool antimafia diretto da Antonino Caponnetto e di cui furono primari attori Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, al tempo, era per i più l’operato di alcuni Don Chisciotte che pretendevano corone d’alloro sulla testa e microfoni sotto il naso e telecamere puntate dritto in viso. Oggi si negano le critiche ricevute da Giovanni Falcone, anche la volta in cui partecipò alla maratona televisiva di Michele Santoro e Maurizio Costanzo dal teatro ai Parioli. Era la dimostrazione, per tutti o quasi, che quello era solo una toga in cerca di applausi e carriera. Poi duecento metri di autostrada esplosero, Giovanni Falcone morì e da quel giorno nessuno ebbe più dubbi nell’acclamarlo eroe della Patria. Perfino le testate che fino al giorno prima lo attaccavano evitarono di pensare – e scrivere – che il tritolo in autostrada se lo fosse piazzato da solo. Poi, giustamente, invece di prendere una posizione, un impegno, si attese che anche il collega Paolo Borsellino venisse ridotto in brandelli. Appena 57 giorni dopo. Neanche il tempo di veder affievolire la rabbia per Falcone. Forse perché i martiri in coppia fanno ancora più piacere, più effetto, per il popolo italiano. Così adesso si “festeggiano” Falcone&Borsellino, che suonano un po’ come i santi Cosma e Damiano. Inscindibili.

Venendo all’esempio contrario, si ricorda che per il venticinquesimo della Strage di Capaci, lo scorso 23 maggio, si organizzò una festa degna delle nozze d’argento di una strage. Un grande palco su cui si avvicendarono artisti, musicisti, showman, ricchi premi e cotillon. Su quel palco della grande celebrazione non c’era nessun magistrato del pool che perseguiva l’obiettivo di far luce sulla Trattativa tra Stato e mafia che era in corso proprio nel periodo in cui morivano i magistrati. Che oggi celebriamo come eroi-martiri. Probabilmente perché loro erano, e sono, vivi. Quindi solo dei rompicoglioni. Infatti, mentre a reti unificate si tessevano le lodi del martire del 23 maggio, di Nino Di Matteo e Vittorio Teresi – in particolare del primo dei due – si diceva, dalle stesse testate, che stavano mettendo in piedi una farsa lunga anni ed anni e che il processo “Trattativa” era solo una inutile perdita di tempo e di denaro pubblico. Critiche che comunque rappresentavano la maggioranza di quei pochissimi articoli e servizi che la stampa dedicava alla vicenda. Lo Stato era finito sul banco degli imputati, in un’aula di Tribunale, con l’accusa di aver stretto accordi con i vertici stragisti di Cosa Nostra, e i media si occupavano delle vicende giudiziarie di Fabrizio Corona – ore di trasmissioni televisive – invece che del processo allo Stato che meritava dirette dall’aula ad ogni udienza. Il processo si concluse, lo scorso 20 aprile, con condanne eccellenti all’indirizzo di alti funzionari dell’Arma e dei Servizi Segreti. Se ne parlò per pochi giorni, forse un paio o poco più, e subito l’argomento uscì dalla scaletta dei palinsesti mediatici. Nel dimenticatoio anche i magistrati che ne produssero il risultato. Per sapere qualcosa dai pubblici ministeri che mandarono alla sbarra lo Stato e ne ottennero, per una parte, la condanna bisogna cercare le interviste di Sandro Ruotolo pubblicate da Fanpage. Però, se dopo il risultato, così come avvenne per Giovanni Falcone, dovessero uccidere Nino Di Matteo avremmo un nuovo eroe e martire bello e pronto per l’uso. Un eroe da commemorare e perfetto per i media, visto che Di Matteo ha rilasciato più interviste ed è stato ripreso e fotografato molto più del collega Falcone. Ah, quante belle parole negli archivi, pronunciate da Di Matteo ai convegni e nelle scuole ed università. Perfetto per ricordarlo, post mortem, negli anni con servizi commemorativi e fiction Tv. Ma solo dopo morto. Perché adesso è vivo, quindi rompe i coglioni il fatto stesso che esso esita!

Nel 1944 veniva pubblicato, ben prima della firma della Costituzione italiana, il “Manifesto di Ventotene”. Sull’italianissima isola di Ventotene, gli autori Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi scrissero l’ideologia costituente dell’Unione europea con un documento originariamente intitolato “Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto”. Una Europa però unita da un unico Parlamento ed un unico Governo, con pieni poteri, alla guida di un continente confederato. Nel rileggere il Manifesto di Ventotene vien da chiedersi se invece del testo di Spinelli e Rossi ad ispirare questa Unione europea non sia in realtà stato quel “Pan-Europa” scritto nel 1922 da Kalergi. Il testo del conte Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi, pubblicato nel 1923, proponeva invece della visione ventoteniana una Europa a guida tecnocratica. La storia vide poi realizzare una Comunità Europea prima ed una Unione Europea dopo, senza Parlamento europeo con potere legislativo e senza Governo con potere esecutivo. Di fatto questa è forse davvero l’Unione europea a guida tecnocratica proposta nel 1922 da Kalergi. Una unione di Stati confederati che hanno una valuta, non condivisa da tutti, ma non hanno un Parlamento. Una UE guidata da Commissari, espressione di establishment, da una banca e dalle influenze estranee del Fondo Monetario Internazionale e dai fondi di investimento che hanno ormai da decenni conficcato i propri tentacoli nella Federal Reserve americana. Tutti i trattati che hanno costituito questa Unione europea sono in buona parte in conflitto con la Costituzione italiana ma, ci vien quotidianamente ripetuto, sono irreversibili. Tra le altre cose, ci vien ripetuto, quasi fosse un monito in stile memento mori, che dobbiamo procedere su questa politica economico-finanziaria ad ogni costo. Ma da quando è esplosa l’ultima grande bolla finanziaria, quella dei derivati, i cosiddetti “titoli bancari tossici”, l’Italia vede aumentare il debito e diminuire le speranze. Inevitabile quindi che gli italiani siano adesso stanchi. Perché il problema, dopo la grande recessione degli ultimi anni da cui quasi tutti i Paesi dell’Unione europea sono venuti fuori, ormai non sta più nel fallimento di una banca d’oltreoceano ma delle politiche che sono nel frattempo state attuate in Italia. In pieno panico da crisi economica, in Italia si sono alternati Governi espressione di un presidente della Repubblica che altro non sono stati se non esecutori fallimentari delegati alla svendita per cessazione attività dello Stato italiano. Contratto “flessibili” per vite precarie è stato il comun denominatore di tutte le riforme del lavoro. No a stabilità, non a garanzie, no a potere d’acquisto, no a casa di proprietà, no a credito bancario, non ad anticipo di pensione, no a servizi al cittadino sanciti dalla Costituzione e finanziati dalle tasse.

Giunge così il momento di delegare dei populisti alla guida del Paese. Follia, incoscienza concessa al popolo dalla democrazia – che maledetto sia chi la inventò – oppure volontà popolare da rispettare e indirizzare nel giusto modo invece che nella “giusta” direzione. “Noi siamo da secoli Calpesti, derisi, Perché non siam popolo, Perché siam divisi. Raccolgaci un’unica Bandiera, una speme: Di fonderci insieme Già l’ora suonò. Stringiamci a coorte Siam pronti alla morte L’Italia chiamò”. Questi versi, che riconoscerebbe perfino un calciatore che non ha mai indossato la maglia azzurra, sono quelli conclusivi dell’inno di Mameli, l’Inno nazionale. Ma oggi il coraggio sembra venuto meno proprio a causa di quella Unione europea tecnocratica che minaccia ogni giorno le nostre vite con strumenti e meccanismi che il popolo non riesce a comprendere proprio perché non appartenenti alla vita reale, come le “aggressioni dei mercati” e il valore dei titoli che causano l’aumento dello “spread”. Eppure, malgrado i media, la vita imbottigliata e sotto stress, gli smartphone e i problemi di parcheggio, malgrado tutto quello che affolla la vita delle persone, l’unica cosa certa è che anche lo scorso anno si sono tolte la vita circa mille persone e le altre hanno d’un tratto e forse anche inconsciamente deciso di darci un taglio con la politica che “viene prima la banca da salvare”. Quale è la correlazione tra la prima parte di questo articolo, sull’eroe-martire che si “festeggia” domani e per cui come consuetudine è già partita da Civitavecchia la “nave della legalità”, e la parte che riguarda la politica italiana e quella europea dovrebbe essere chiaro. In ogni caso, una riga di testo in più non costa nulla. Un giorno potremmo anche scoprire che potevamo ancora essere orgogliosi di essere italiani, che l’Italia aveva ancora qualcosa da dire e da insegnare agli altri, che non avevamo smesso di inventare ed essere padri di tutto quello che ha rivoluzionato la vita del genere umano e che l’Unione europea corretta era forse quella di Ventotene e non quella odierna in stile Kalergi. Adesso, a poche ore dal ventiseiesimo anniversario della Strage di Capaci con tutta la sua retorica, dobbiamo decidere se vogliamo l’Unione europea di Ventotene o quella tecnocratica di Kalergi e prenderci un impegno. Adesso. Prima che ci ritroviamo da celebrare anche l’anniversario della morte dell’eroica Italia con belle parole in memoria di un Paese che fu grande ma lo capimmo troppo tardi.Perché, in fin dei conti, anche in questo senso stiamo dando del rompicoglioni a qualcuno.

Mauro Seminara: Giornalista palermitano, classe '74, cresce professionalmente come fotoreporter e videoreporter maturando sulla cronaca dalla prima linea. Dopo anni di esperienza sul campo passa alla scrittura sentendo l'esigenza di raccontare i fatti in prima persona e senza condizionamenti. Ha collaborato con Il Giornale di Sicilia ed altre testate nazionali per la carta stampata. Negli anni ha lavorato con le agenzie di stampa internazionali Thomson Reuters, Agence France-Press, Associated Press, Ansa; per i telegiornali nazionali Rai, Mediaset, La7, Sky e per vari telegiornali nazionali esteri. Si trasferisce nel 2006 a Lampedusa per seguire il crescente fenomeno migratorio che interessava l'isola pelagica e vi rimane fino al 2020. Per anni documenta la migrazione nel Mediterraneo centrale dal mare, dal cielo e da terra come freelance per le maggiori testate ed agenzie nazionali ed internazionali. Nel 2014 gli viene conferito un riconoscimento per meriti professionali al "Premio di giornalismo Mario Francese". Autore e regista del documentario "2011 - Lampedusa nell'anno della primavera araba", direttore della fotografia del documentario "Fino all'ultima spiaggia" e regista del documentario "Uomo". Ideatore e fondatore di Mediterraneo Cronaca, realizza la testata nel 2017 coinvolgendo nel tempo un gruppo di autori di elevata caratura professionale per offrire ai lettori notizie ed analisi di pregio ed indipendenti. Crede nel diritto all'informazione e nel dovere di offrire una informazione neutrale, obiettiva, senza padroni.
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