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Un angolo di terra per Yusuf Alì Kanneh morto in mare

La sepoltura nella terra di Lampedusa del piccolo Yusuf Alì Kanneh - 14 novembre 2020

di Mauro Seminara

Una piccola bara bianca è uscita questa mattina dall’ala cimiteriale di Lampedusa in cui si trova il piccolo magazzino attrezzi, da sempre impiegato come camera mortuaria, per recarsi nell’ala in cui il piccolissimo corpo privo di vita ha avuto sepoltura. La portavano in spalla il sindaco, il parroco, i comandanti dei corpi dello Stato di stanza sull’isola. Dietro, in inquieto silenzio, una giovanissima donna sostenuta da due operatori di Save the Children. La donna, una ragazza guineiana dai tratti raffinati, è minorenne. Quando fu l’ora di interrare il piccolo feretro, in quella nuda terra che il cimitero di Lampedusa poteva offrire, la madre è esplosa in un dolore assordante, non per le disperate urla di dolore ma per il dolore che quel momento provocava in tutti i presenti. Poche persone, il Forum Lampedusa Solidale e pochi altri oltre alle autorità locali, ma tutte unite dal condiviso strazio. C’erano anche un paio di videocamere. Giornalisti? Non necessariamente. Chi scrive non condivide, e non è un segreto, i nobili intenti dettati dalla Carta di Roma ai giornalisti, ma mostrare il volto di un migrante al momento dello sbarco è certamente cosa ben diversa dal riprendere la nuda disperazione di una madre minorenne che soffre per il suo neonato mentre la pala implacabile lo copre di terra.

Una giovanissima donna si dispera e soffre, con delle pantofole di peluche di chiara manifattura industriale cinese ed una felpa di altrettanta sintetica qualità, di un orribile rosa con impresso sul petto un vistoso “I love Rom” in cui l’amore è riportato con un grande cuore rosso invece di lettere e “Rom” dovrebbe essere la capitale del Paese in cui è andata a seppellire suo figlio. Non le è stata concessa una possibilità di dignitoso lutto e neanche il diritto a non finire su immagini di pura speculazione in un momento così pietoso. Non si perdona di dover assistere alla sepoltura del figlio cui la giovanissima e coraggiosa madre aveva promesso un futuro, una nuova vita, lontano dagli orrori in cui quella creatura era nata. Ripete il suo nome, Yusuf, quello che in italiano sarebbe Giuseppe, ed urla il nome di quella maledetta Libia e dell’Italia che suo figlio avrebbe dovuto vedere e non esservi seppellito. Yusuf Ali Kanneh, nato in località sconosciuta della Libia il 26 aprile 2020 e morto nel Mar Mediterraneo il giorno 11 novembre 2020. Circa cinque mesi e mezzo dopo.

La terra ha coperto il corpicino di un neonato che non aveva nulla; neanche un alibi da offrire a chi tenta ogni giorno di camuffare il proprio razzismo dietro pregiudizi su infondate inclinazioni dei migranti. Yusuf poteva crescere in Italia, italiano, invece di morire in mare a meno di sei mesi per il cedimento di un gommone criminale approntato dai trafficanti ed un forse altrettanto criminale rimpallare di competenze e opportunità sui soccorsi a migranti. Yusuf, senza nulla e senza sapere, è nato nella guerra in Libia ed è morto in una guerra ancora più meschina e ipocrita, perché silenziosa, in quel mare in cui l’Unione europea e la stessa Libia non vogliono soccorritori. Eppure, a salvare i naufraghi, la giovane guineiana e provare a salvare anche la vita di Yusuf è stata una nave ONG, la Open Arms. Una di quelle che chi non soccorre i naufraghi non vuole che stia tra i piedi in quel mare in cui è morto Yusuf. E a Lampedusa è stata posta un po’ di terra su quel piccolo morto in mare nel Mediterraneo.

Sulla terra che copre la piccola bara bianca c’è una piccola lapide che raffigura una barca con un vistoso arcobaleno sopra. Davanti ci sono fiori, ed infine anche una piccola maglietta da bambino, piegata. Unico vero tratto distintivo della giovanissima età di chi li è stato sepolto. La sua giovane e straziata madre non aveva dove andare a chiedere un visto per allontanare suo figlio dall’inferno, con un canale legale, un corridoio umanitario. Yusuf è morto davanti ad un confine invisibile alzato da chi sta dalla parte che sua madre raggiungere per offrirgli una vita.

Il disegno di Francesco Piobbichi pubblicato dal Forum Lampedusa Solidale in memoria del piccolo Yusuf con una leggera piuma che si libra nel cielo da un mare di filo spinato
Mauro Seminara: Giornalista palermitano, classe '74, cresce professionalmente come fotoreporter e videoreporter maturando sulla cronaca dalla prima linea. Dopo anni di esperienza sul campo passa alla scrittura sentendo l'esigenza di raccontare i fatti in prima persona e senza condizionamenti. Ha collaborato con Il Giornale di Sicilia ed altre testate nazionali per la carta stampata. Negli anni ha lavorato con le agenzie di stampa internazionali Thomson Reuters, Agence France-Press, Associated Press, Ansa; per i telegiornali nazionali Rai, Mediaset, La7, Sky e per vari telegiornali nazionali esteri. Si trasferisce nel 2006 a Lampedusa per seguire il crescente fenomeno migratorio che interessava l'isola pelagica e vi rimane fino al 2020. Per anni documenta la migrazione nel Mediterraneo centrale dal mare, dal cielo e da terra come freelance per le maggiori testate ed agenzie nazionali ed internazionali. Nel 2014 gli viene conferito un riconoscimento per meriti professionali al "Premio di giornalismo Mario Francese". Autore e regista del documentario "2011 - Lampedusa nell'anno della primavera araba", direttore della fotografia del documentario "Fino all'ultima spiaggia" e regista del documentario "Uomo". Ideatore e fondatore di Mediterraneo Cronaca, realizza la testata nel 2017 coinvolgendo nel tempo un gruppo di autori di elevata caratura professionale per offrire ai lettori notizie ed analisi di pregio ed indipendenti. Crede nel diritto all'informazione e nel dovere di offrire una informazione neutrale, obiettiva, senza padroni.

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  • Ho molto apprezzato i vs articoli, anche se al momento letti non con la necessaria attenzione. Ovvio che l'informazione ufficiale non riesce (non ha né intenzione né interesse a farlo) a trasmettere il carico umano del fenomeno migratorio, né a suscitare la necessaria e naturale empatia con queste persone. S'è fatto in fretta a dimenticare, noi italiani, presunta brava gente ma dalla bocca sempre troppo larga quando non serve, d'essere, per almeno 2 terzi, figli di migranti, anche clandestini. Senza fare la morale a nessuno (pure se forse di retorica non si muore), credo che ciò che ci terrorizzi, nel fatto della migranza, sia l'obbligo a confrontarci con un altro assolutamente diverso da noi. Perché quelle persone sono assolutamente diverse da noi -non dirselo pure è camuffare la Realtà- non certo per valore o dignità, ma per cultura, religione, razza, storia....e questo ci spaventa. Loro catapultano il mondo -in tutta la sua urgente complessità e problematicità- dentro i confini rassicuranti del nostro piccolo Paese e questo ci mette in crisi. Per noi è più facile fare elemosine a distanza (mi pare li chiamino 'aiuti') che ammettere che il mondo comincia oltre (e nonostante) il nostro orizzonte. Anche sull'assunzione di questa prospettiva occorre lavorare: se non saremo capaci di assumerla sì che verremo spazzati via o assorbiti da un mondo che si squaderna a pieno campo attorno a noi (anzi già in casa nostra). Grazie

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