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    Categories: Editoriali

Europa: un parto senza amore

di Domenico Gallo

Si è concluso nella notte di lunedì il più tormentato Consiglio Europeo nella storia dell’Unione, drammatico perché si è svolto in circostanze drammatiche. Il disastro economico-sociale provocato dalla pandemia, infatti, ha creato una situazione simile a quella in cui si trovava l’Europa all’uscita dalla seconda guerra mondiale, con l’economia distrutta e il debito pubblico alle stelle. Si tratta di una crisi epocale che richiede un progetto straordinario di ricostruzione. Però questa volta non c’è il soccorso americano con un nuovo piano Marshall (che non a caso si chiamava European Recovery Program), per questo il progetto di risanamento delle ferite provocate dalla pandemia e di rilancio dell’occupazione e di uno sviluppo sostenibile è una responsabilità che grava esclusivamente sulle spalle dell’Unione Europea. Ed è una responsabilità talmente pesante che incide sul destino stesso dell’Unione che rischia di dissolversi se non saprà affrontare la crisi e ripensare profondamente la propria governance economica e politica.

Occorreva una svolta e la svolta finalmente c’è stata al Consiglio europeo attraverso una gestazione lunga e travagliata che ha consentito di salvare nella sostanza il progetto presentato dalla Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen (denominato NextGenerationEU). Il Recovery fund approvato dal Consiglio UE ha un valore complessivo di750 miliardi, 390 miliardi in “grants” (sussidi diretti) e 360 in “loans” (prestiti garantiti dall’Ue, a tassi molto bassi). E’ lo stesso ammontare della proposta della Commissione, ma con una diversa distribuzione tra sussidi e prestiti, meno sussidi, più prestiti: questo è il prezzo pagato (assieme ad altri ugualmente velenosi) all’egoismo dei paesi cosiddetti frugali.

Il Recovery fund è collegato al Bilancio pluriennale dell’Europa. I 750 miliardi saranno raccolti sui mercati. Vuol dire che per la prima volta la Commissione emetterà degli eurobond che daranno vita ad un debito comune europeo, ovvero un debito “garantito” da ciascuno degli Stati membri, sebbene poi le risorse vengano distribuite in base alle necessità createsi con il coronavirus. Per capirsi, tutti contribuiranno al debito europeo da 750 miliardi, ma a usufruirne maggiormente saranno Paesi come Italia e Spagna in base alla perdita di Pil e lavoro che hanno registrato per colpa di Covid-19. Questo significa che il principio solidaristico, che tiene in piedi ogni comunità politica, ha prevalso sulla cecità degli egoismi nazionali di cui si è fatto alfiere il leader olandese Mark Rutte. Per far ciò è stato derogato uno dei peggiori principi fondamentali iscritto nell’articolo 123 del Trattato sul funzionamento dell’Unione, il famoso no bail out, il divieto di ogni finanziamento agli Stati membri in difficoltà, essendo stati già sospesi i piani di rientro dal debito imposti dal fiscal compact.

Questa decisione segna la nascita di una nuova Europa, il parto è stato frutto di un travaglio lungo e doloroso, ma – a differenza di quello che generalmente succede – la nuova nascita è stata accolta senza amore. Il nuovo accordo dovrà essere ratificato dall’Europarlamento e dai Parlamenti di tutti i Paesi membri. Nei paesi che ritengono di avere economie più forti o bilanci meno compromessi, si sono levate alte le grida di rabbia dei sovranisti, che daranno battaglia nei rispettivi parlamenti. Gli stessi leader di questi paesi, malgrado appartengano a famiglie politiche europee che dovrebbero avere a cuore le sorti dell’Europa, come i popolari (Mark Rutte) o i socialisti (il premier svedese Stefan Lofven o la premier finlandese Sanna Marin), hanno cercato fino all’ultimo di far abortire la nuova creatura e far implodere la costruzione europea, facendo finta di non capire che nessun paese si può salvare da solo quando la recessione colpisce tutti gli altri attori del mercato unico. Si è creata così una frattura che non sarà facile da superare.

I prossimi mesi saranno decisivi per verificare se il parto di questa nuova Europa sarà felice o se sarà destinato ad una fine prematura.

E’ giunto il momento di decidere finalmente se l’Unione Europea deve essere una Comunità politica unita da valori comuni o solo uno spazio di mercato in cui prevale la competizione di tutti contro tutti.

Domenico Gallo: Nato ad Avellino l'1/1/1952, nel giugno del 1974 ha conseguito la laurea in Giurisprudenza all'Università di Napoli. Entrato in magistratura nel 1977, ha prestato servizio presso la Pretura di Milano, il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, la Pretura di Pescia e quella di Pistoia. Eletto Senatore nel 1994, ha svolto le funzioni di Segretario della Commissione Difesa nell'arco della XII legislatura, interessandosi anche di affari esteri, in particolare, del conflitto nella ex Jugoslavia. Al termine della legislatura, nel 1996 è rientrato in magistratura, assumendo le funzioni di magistrato civile presso il Tribunale di Roma. Dal 2007 è in servizio presso la Corte di Cassazione, attualmente ricopre le funzioni di Presidente di Sezione. E’ stato attivo nel Comitato per il No alla riforma costituzionale Boschi/Renzi. Collabora con quotidiani e riviste ed è autore o coautore di alcuni libri, fra i quali Millenovecentonovantacinque – Cronache da Palazzo Madama ed oltre (Edizioni Associate, 1999), Salviamo la Costituzione (Chimienti, 2006), La dittatura della maggioranza (Chimienti, 2008), Da Sudditi a cittadini – il percorso della democrazia (Edizioni Gruppo Abele, 2013), 26 Madonne nere (Edizioni Delta Tre, 2019)
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