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Testimoni ed eliminazioni

di Mauro Seminara

C’è un quesito, legittimo quanto ineludibile, che si deve porre ogni negazionista ed ogni fans del “Capitano”: Se le Ong non fossero “vicescafisti” finanziati da società occulte per destabilizzare l’Italia ma semplicemente scomodi testimoni di uno sterminio di Stato?

La Open Arms non si sarebbe dovuta trovare in quelle acque giusto in tempo per documentare una tragedia fantasma, recuperare i corpi e, soprattutto, salvare una testimone strappata a morte certa. Non ci si sarebbe dovuta trovare perché il programma anti-Ong aveva quasi raggiunto il suo compimento. Dal Moas alle navi noleggiate da Save the Children e Medici Senza Frontiere, la flotta era già stata decimata da Marco Minniti. La Iuventa era stata sequestrata lo scorso anno e Sea Watch e Lifeline sono state da poco bloccate a Malta. Per le restanti Organizzazioni sembrava bastare il divieto di accesso, non scritto, e di utilizzo dei porti italiani e maltesi anche solo per fare rifornimento o far avvicendare i volontari. Rimanevano libere, senza ordini di sequestro o altre iniziative utili ad immobilizzare navi senza accuse dirette a persone per reati contestabili in giurisdizione nazionale, soltanto la Aquarius di SOS Mediterranee e le due imbarcazioni della Proactiva Open Arms, la Astral e la Open Arms. Queste erano costrette a fare scalo nei porti di Spagna e Francia per poi navigare quattro giorni prima di raggiungere la zona di soccorso al largo della Libia, e la distanza, con annessi costi, sembrava dover fare ritirare a breve anch’esse dalle operazioni di soccorso. Così non è stato, ed in particolare i catalani della Proactiva Open Arms hanno dimostrato di avere più spina dorsale degli italiani. Palle che l’italiano medio sembra non avere più. Si era già visto quando la Astral e la Open Arms, entrambe della stessa Ong, avevano ingaggiato sfide marinaresche con la C-Star. Molti la ricorderanno ancora la farsa di Generazione Identitaria che avrebbe dovuto impedire alle Ong di salvare vite umane e portarle in Italia. Una sorta di difensori della razza ariana, in versione pirati del mare, che assoldarono un equipaggio “low cost” delle filippine o giù di lì, poi abbandonato sulla nave dismessa all’esito del fallimento identitario. Open Arms non si è tirata indietro allora e non lo ha fatto adesso, quando partendo dalla Spagna ha comunque raggiunto il Mediterraneo centrale, avvistato i rottami del gommone che ha avvicinato per verificare lo stato dei fatti e scoperto che tra tubolari sgonfi e le tavole di legno c’erano dei corpi. Ecco: Open Arms nel Mediterraneo centrale non ci doveva proprio stare.

Nelle ultime 48 ore, stranamente, dal ministro della propaganda, iperattivo su Twitter, nessun cinguettio su Open Arms e Josefa. Strano ma vero, sembra che sulla vicenda il titolare del Viminale usi cautela in attesa che il caso si sgonfi. Dalla conferma della querela a Roberto Saviano al tweet sulla ossitocina, il ministro twitta, ma pubblica i suoi cinguettii su tunisini rimpatriati e poco altro riguardante i flussi migratori nel Mediterraneo. Non twitta però contro Open Arms, Oscar Camps, Erasmo Palazzotto o la superstite Josefa. Solo un “fonte del Viminale, che affida alla stampa un “non rispondiamo a ricostruzioni anonime e fantasiose sulla Guardia Costiera libica” con buttato lì anche un non meritevole riscontro a chi non ha accettato di far sbarcare la superstite Josefa in Italia. Per il resto, silenzio Twitter sul caso. Eppure, basterebbero 140 caratteri del ministro degli Interni perché il suo esercito di followers inizi a mettere in dubbio tutta la vicenda. Basterebbe un suo tweet e da casa tutti si convincerebbero che la donna con il bambino erano solo manichini e “bambolotti” messi in acqua tra i resti di una messa in scena e che la superstite e testimone Josefa era solo una attrice assoldata dalla Ong con i soldi di Soros. Eppure, malgrado la soglia di fanatismo fatale dei suoi followers, il ministro non twitta sulla vicenda. In soccorso, anche dell’altrettanto silenziosa componente pentastellata del Governo, arriva la “notizia” dell’indagine sul ministro Paolo Savona, già conosciuta al tempo in cui il nome del ministro era l’hashtag del giorno per la formazione del Governo. Un vespaio inutile quindi. Tutti però sulla polemica del ministro indagato e nessuno sulla testimone condotta in Spagna dalla Ong che l’ha salvata. Testimone che l’Italia – da definire poi cosa si intende per “Italia” – era disposta a far sbarcare nel porto siciliano di Catania. Ma solo la testimone. I cadaveri no. I corpi della donna e del bambino non li volevano in Italia e neanche a Malta. Quelli potevano stare a bordo di imbarcazioni senza grandi celle frigorifere per quattro giorni e fino a Palma di Maiorca. Non era un problema italiano. Come non definire questa “disponibilità” quantomeno sospetta? Come non decidere di condurre Josefa lontano da quei porti chiusi – che già in passato avevano provato a sequestrare l’imbarcazione della Ong spagnola – non sicuri per la testimone? Gli stessi porti ormai non più sicuri in cui i media mainstream hanno dato così poco spazio alla notizia di politica internazionale con stragi quotidiane al seguito, o l’hanno limitata a qualche richiamo di “colore” con il campione di basket che ricorda commosso l’immagine della donna e del bambino che sembrava dormire ed era invece morto.

La tragedia pare essersi verificata a metà strada tra la costa della Libia e quella italiana di Lampedusa. La dove da sempre erano intervenute unità della Guardia Costiera italiana sotto il coordinamento dell’MRCC di Roma. La Guardia Costiera italiana, Guardia Costiera per eccellenza nel Mediterraneo. Quella che non avrebbe mai abbandonato dei corpi in mare, figuriamoci delle persone ancora in vita. Quella fatta di abnegazione e professionalità, con soccorritori sommozzatori e medici a bordo. Quella Guardia Costiera con le barche bianche e la fascia tricolore orgogliosamente impressa sullo scafo ha dovuto cedere il passo all’accozzaglia di libici armati a bordo delle motovedette già donate dall’Italia ed a cui il Bel Paese intende offrirne altre dodici “gratis”. Eppure, l’Italia è ormai un Paese ormai cosi malamente abituato a tagli alla sanità come alle forze dell’ordine, a precariato ed al conseguente calo della professionalità ed allo spirito di sacrificio, alla riduzione drastica dell’assunzione di responsabilità nello svolgimento del proprio lavoro ormai non assistito né garantito o tutelato, che a fronte di una leggerezza del genere, come quella di chi asserisce di aver abbandonato in mare “solo dei morti” e non si era accorto della persona in vita, avrebbe iniziato una guerra social definendo i soccorritori incapaci nel peggiore dei modi. Figurarsi a fronte del dubbio, più che concreto e legittimo, che quando i libici sono andati via c’erano due donne, un bambino ed altre persone ancora in vita invece che una donna ed un bambino morti ed una donna ancora in vita per puro miracolo. Figurarsi, ancora peggio, se, come asserisce il Fatto Quotidiano, i libici affondano i gommoni prima di prendere a bordo i migranti in modo da non offrire loro la possibilità di rifiutare il ritorno nell’inferno da cui sono fuggiti: la Libia.

Questa delega, ai libici che conosciamo meglio con questa vicenda, come se non fosse bastata quella documentata da Sea Watch e che aveva costretto la Marina Militare italiana a tentare di fermare la motovedetta nordafricana ponendosi pericolosamente davanti con l’elicottero, l’ha data e la sta difendendo l’Italia con l’approvazione della stessa Unione europea che però non riconosce la Libia quale “porto sicuro”. E come potrebbe, visto tutto quello che raccontano i report delle Nazioni Unite e di altre Organizzazioni al di sopra di ogni sospetto sul trattamento che i libici riservano ai migranti in assoluto dispregio dei diritti umani? Il dubbio, quindi, è che la delega italiana ai libici preveda che questi ultimi eliminino il flusso migratorio e che al delegante non importi cosa il concetto di eliminazione includa. L’importante è che il delegato elimini. Ricorda quel doppio zero nel nome in codice dell’agente segreto più famoso del cinema: licenza di uccidere. A questo punto però tutto si ribalta e le aspettative divengono esattamente opposte a quelle naturali, fisiologiche: ci si aspetta che il ministro degli Interni non smetta di twittare in maniera compulsiva e che twitti al riguardo; e ci si aspetta che gli italiani decidano se voler essere davvero complici compiacenti come i tedeschi lo furono per i campi di concentramento e sterminio nazisti. E i Cinque Stelle? Forse loro dovrebbero togliersi le stelle dal petto e cominciare a fare le persone serie che gli incarichi assunti pretendono. Magari partendo dal ministro dei Trasporti, unico riferimento politico per la Guardia Costiera italiana. Quel tale, quello con gli occhiali che nessuno sa chi è e che invece dovrebbe dire al collega degli Interni che la Guardia Costiera è sotto la sua responsabilità e che essa, dopo un soccorso, un intervento SAR, le persone salvate le sbarca in un porto sicuro senza che il responsabile degli Interni possa impedire un benemerito. Perché Guardia Costiera e porti fanno capo al Ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture, non al Ministero degli Interni.

Osservando in silenzio il silenzio delle stelle e dei pentastellati

Aspettando in silenzio la testimonianza di Josefa dalla Spagna

Mauro Seminara: Giornalista palermitano, classe '74, cresce professionalmente come fotoreporter e videoreporter maturando sulla cronaca dalla prima linea. Dopo anni di esperienza sul campo passa alla scrittura sentendo l'esigenza di raccontare i fatti in prima persona e senza condizionamenti. Ha collaborato con Il Giornale di Sicilia ed altre testate nazionali per la carta stampata. Negli anni ha lavorato con le agenzie di stampa internazionali Thomson Reuters, Agence France-Press, Associated Press, Ansa; per i telegiornali nazionali Rai, Mediaset, La7, Sky e per vari telegiornali nazionali esteri. Si trasferisce nel 2006 a Lampedusa per seguire il crescente fenomeno migratorio che interessava l'isola pelagica e vi rimane fino al 2020. Per anni documenta la migrazione nel Mediterraneo centrale dal mare, dal cielo e da terra come freelance per le maggiori testate ed agenzie nazionali ed internazionali. Nel 2014 gli viene conferito un riconoscimento per meriti professionali al "Premio di giornalismo Mario Francese". Autore e regista del documentario "2011 - Lampedusa nell'anno della primavera araba", direttore della fotografia del documentario "Fino all'ultima spiaggia" e regista del documentario "Uomo". Ideatore e fondatore di Mediterraneo Cronaca, realizza la testata nel 2017 coinvolgendo nel tempo un gruppo di autori di elevata caratura professionale per offrire ai lettori notizie ed analisi di pregio ed indipendenti. Crede nel diritto all'informazione e nel dovere di offrire una informazione neutrale, obiettiva, senza padroni.

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