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Il caso Cap Anamur. Assolto l’intervento umanitario. E oggi?

di Fulvio Vassallo Paleologo

Nei giorni in cui si torna a criminalizzare l’assistenza umanitaria in favore dei migranti soccorsi in acque internazionali, potrà risultare utile leggere la sentenza del Tribunale di Agrigento del 7 ottobre 2009 con la quale, dopo cinque anni di processo, venivano assolti tutti gli imputati del caso Cap Anamur. Un caso che ha costituito una svolta nelle politiche e nelle prassi di contrasto dell’immigrazione irregolare via mare.

In quella occasione il Tribunale di Agrigento aveva pronunciato una sentenza di assoluzione con formula piena “perché il fatto non costituisce reato” nei confronti di Elias Bierdel, del comandante Schmidt e del suo secondo, imputati di agevolazione dell’ingresso di clandestini dopo avere soccorso, nel giugno 2004, 37 naufraghi alla deriva cento miglia a sud di Lampedusa. È stato anche disposto il dissequestro del deposito cauzionale che era stato versato dopo il sequestro della nave, restituita al comitato Cap Anamur e poi venduta.

Il messaggio chiaro della sentenza di Agrigento è che gli stati devono rispettare il diritto internazionale del mare, che vieta anche i respingimenti collettivi, ed il divieto di refoulement affermato dalla Convenzione di Ginevra (art.33). Un arresto giurisprudenziale di grande importanza in un momento nel quale a livello europeo e nazionale si vorrebbero riscrivere a colpi di direttive e circolari, addirittura “codici di condotta” imposti dal Ministero dell’Interno per via amministrativa, le regole del diritto internazionale del mare per giustificare le operazioni SAR (Ricerca e Soccorso) in acque internazionali, all’interno di una inesistente zona SAR libica, con delega dei soccorsi alla cosiddetta Guardia costiera “libica”.

Sentenza Cap Anamur

Le motivazioni della sentenza di assoluzione nel caso Cap Anamur mettono bene in evidenza le responsabilità di chi volle montare il caso a livello politico internazionale per lanciare un messaggio dissuasivo verso gli interventi di salvataggio, un messaggio che negli anni successivi ha causato migliaia di morti.

Le stesse motivazioni enunciano principi di diritto – come il principio di non respingimento e l’obbligo di condurre i naufraghi in un “place of safety”, e non nel porto più vicino – che rischiano di essere ancora violati dalle autorità italiane con la prassi dell’indicazione della Guardia Costiera libica come autorità SAR competente per azioni di ricerca e soccorso in acque internazionali, ben distanti dal limite delle acque territoriali libiche. Una Guardia costiera “libica” che lo scorso anno non ha esitato a sequestrare due operatori umanitari intenti a salvare vite umane in acque internazionali, e che ricorre regolarmente alle armi per intercettare e fermare le imbarcazioni cariche di migranti e le navi o i battelli delle ONG che prestano loro assistenza in acque internazionali.

La vicenda Cap Anamur, e soprattutto la situazione di incertezza allora esistente sulla individuazione del porto di sbarco, portò ad una importante integrazione del diritto internazionale del mare. Una particolare considerazione merita ancora oggi la problematica relativa a ciò che debba intendersi per conduzione della persona salvata in luogo sicuro (place of safety). Infatti, è dal momento dell’arrivo in tale luogo che cessano gli obblighi internazionali (e nazionali) relativamente alle operazioni di salvataggio, che pertanto non si esauriscono con le prime cure mediche o con la soddisfazione degli altri più immediati bisogni (alimentazione etc.). Una questione che si ripropone ancora oggi con il sequestro della nave umanitaria di Proactiva “Open Arms” e con la incriminazione del comandante, del Coordinatore delle operazioni di soccorso e del Direttore dell’associazione spagnola, con sede a Barcellona. Tutti hanno potuto vedere le condizioni dei migranti soccorsi da questa nave e sbarcati a Pozzallo. Eppure per qualcuno non ricorrerebbe lo stato di necessità, e sarebbe stato meglio affidarli alla Guardia Costiera libica.

Il Mediterraneo centrale e le aree SAR

Con l’entrata in vigore (luglio 2006) degli Emendamenti alla Convenzione SAR 1979 (luglio 2006) e alla Convenzione SOLAS del 1974 (e successivi protocolli) e con le linee guida – adottate in sede IMO lo stesso giorno di approvazione degli emendamenti alle convenzioni e protocolli – viene fatta maggiore chiarezza sul concetto di “place of safety” e sul fatto che la nave soccorritrice è un luogo puramente provvisorio di salvataggio, il cui raggiungimento non coincide con il momento terminale delle operazioni di soccorso. Gli emendamenti adottati a livello internazionale nel 2004 ed entrati in vigore nel 2006, approvati dall’Italia ma non da Malta, insistono particolarmente sul ruolo attivo che deve assumere lo Stato costiero responsabile della zona SAR nella quale è avvenuto l’intervento di salvataggio nel liberare la nave soccorritrice dal peso non indifferente di gestire a bordo le persone salvate.

Secondo gli emendamenti sul trattamento delle persone soccorse in mare adottate nel maggio del 2004 dal Comitato marittimo per la sicurezza, che integrano le convenzioni SAR e SOLAS, “il governo responsabile per la regione SAR in cui sono stati recuperati i sopravvissuti è responsabile di fornire un luogo sicuro o di assicurare che tale luogo venga fornito”. Secondo le stesse linee guida “un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse e dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possano essere soddisfatte; e possa essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale.

Cap Anamur e Guardia Costiera

Dopo anni di indagini, e dopo la audizione di numerosi testimoni, tutte le accuse formulate dalla Procura di Agrigento nei confronti dei responsabili della Cap Anamur sono risultate destituite di ogni fondamento. È caduta la iniziale ipotesi accusatoria della forzatura del blocco navale che era stato imposto alla Cap Anamur, tenuta per due settimane al largo delle coste siciliane per decisione del Governo italiano, ed è emersa la situazione di stato di urgenza e necessità, determinata a bordo della nave da una così lunga permanenza dei naufraghi, ai quali venivano impediti lo sbarco in Italia e la possibilità di fare valere la loro richiesta di asilo o di protezione umanitaria.

È apparsa inoltre evidente la pretestuosità della ricostruzione dei fatti che – per contestare le aggravanti derivanti dalla ipotesi associativa – è giunta a coinvolgere anche il “secondo di bordo”, soggetto del tutto privo di autonoma capacità decisionale sulla condotta della nave, rimessa esclusivamente ai poteri del comandante. In questa prospettiva appare ancora più ingiustificata la carcerazione preventiva imposta agli imputati nei primi giorni dopo lo sbarco. Ma tanto si doveva chiedere per soddisfare le richieste del Ministero dell’Interno dell’epoca, che pretendeva una condanna esemplare di chi aveva avuto il coraggio di disobbedire agli ordini giunti da Roma, ed impartiti dalle autorità militari senza alcuna considerazione per la vita e la dignità delle persone che erano state soccorse mentre si trovavano in pericolo di vita.

“On wednesday may 6 Italian ships intercepted 227 would be immigrants at sea and sent them directly back to Libya.”


“On wednesday may 6 Italian ships intercepted three boatloads of migrants they were transferred to three Italian ships and by Thursday morning they were returned to Tripoli.”

 

I ritardi ed il clamore derivante da questa vicenda, arrivata sulla stampa di tutto il mondo, derivava esclusivamente dalle scelte di sbarramento dei governi coinvolti. Una responsabilità che porta i nomi dell’allora ministro Pisanu, e dei suoi omologhi tedesco Schily e inglese Blunkett. Erano gli anni in cui si conciavano ad agitare gli spettri dell’invasione incontrollata e del terrorismo internazionale. Purtroppo la prassi dei respingimenti collettivi non è mai cessata, come è dimostrato dalla condanna subita dall’Italia nel 2012 sul caso Hirsi, per i respingimenti effettuati nel 2009 dalla Guardia di Finanza che riconsegnava alle autorità libiche nel porto di Tripoli decine di naufraghi soccorsi in acque internazionali dalla motovedetta Bovienzo.

Quanto il tentativo di criminalizzare gli operatori umanitari della Cap Anamur, o i respingimenti collettivi eseguiti nel 2009 dalla Guardia di Finanza condannati dalla CEDU, abbiano giovato alla sicurezza dei cittadini europei, quanto le politiche di respingimento e di interdizione degli sbarchi abbiano ridotto l’immigrazione irregolare o evitato la minaccia terroristica, lo diranno nel tempo i libri di storia, mentre le opinioni pubbliche dei Paesi europei sembrano sempre più soggetti al ricatto degli imprenditori politici ed economici della paura e della insicurezza. La sentenza di Agrigento sul caso Cap Anamur costituisce una importante affermazione dello stato di diritto di fronte al tentativo delle autorità amministrative italiane di configurare “a posteriori” una fattispecie di responsabilità penale, in violazione del principio di legalità e della responsabilità personale sui quali si basa nel nostro sistema il diritto penale.

Sarebbe tempo che l’Unione Europea rifletta sulla utilità e sui costi umani delle operazioni affidate alle unità della cosiddetta Guardia Costiera libica. Sembra infatti che la nuova operazione di Frontex denominata Themis, partita il 2 febbraio scorso, in collegamento con l’operazione italiana Nauras, preveda un rafforzamento del livello di cooperazione operativa tra le unità navali libiche, quelle europee e quelle italiane, comprese anche nell’operazione Eunavfor Med. Si deve ricordare ancora una volta che la cosiddetta Guardia Costiera libica, quando esce dalle proprie acque territoriali (12 miglia dalla costa), opera in una zona SAR (ricerca e salvataggio) che non è neppure riconosciuta a livello internazionale dall’IMO. Sarebbe anche tempo che i responsabili di prassi illegittime, in violazione del diritto internazionale del mare e degli obblighi di salvataggio, e non gli operatori umanitari, fossero chiamati a rispondere per le operazioni di respingimento collettivo che hanno intimato, se non in altre occasioni, consentito e condiviso, nella consapevolezza delle gravissime violazioni dei diritti fondamentali e della stessa integrità fisica, se non della vita, che avrebbero subito i migranti, una volta ricondotti in Libia. Speriamo di non dovere attendere altri cinque anni (tanto durò il processo Cap Anamur) per avere giustizia ed una assoluzione piena degli operatori umanitari della nave spagnola di ProActiva “Open Arms”.

Articolo di Fulvio Vassallo Paleologo per ADIF – Associazione Diritti e Frontiere reperibile su www.a-dif.org

(Contenuto concesso dall’autore a Mediterraneo Cronaca)

Associazione Diritti e Frontiere:
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