Decreto sicurezza bis di Salvini inasprito dal Governo che criminalizza il soccorso umanitario

La risposta del governo alla richiesta proveniente dalla Alan Kurdi di fornire un porto di sbarco sicuro si è quindi risolta in un Decreto interministeriale che costituisce sul piano amministrativo un inasprimento del decreto sicurezza bis voluto da Salvini quando era ministro dell’interno

di Fulvio Vassallo Paleologo

Dopo le prime fasi di soccorso, la nave umanitaria Alan Kurdi della Organizzazione non governativa tedesca Sea Eye, a bordo della quale si trovavano decine di naufraghi salvati nelle acque internazionali a nord delle coste libiche, aveva chiesto al Viminale la indicazione di un porto sicuro di sbarco (place of safety) come previsto dal diritto internazionale del mare. Già dall’adozione dello stato di emergenza legato alla diffusione del COVID-19, il 31 gennaio di quest’anno sarebbe stato necessario un piano di distribuzione delle persone soccorse in mare, ma la risposta del governo italiano si è limitata inizialmente all’imposizione delle procedure di quarantena ed al tentativo di ritrasferire in altri paesi europei i pochi naufraghi che venivano ancora soccorsi dalle navi umanitarie. Ancora in questa ultima occasione si è tentato di scaricare sulla Germania l’onere di indicare un porto di sbarco o di garantire comunque l’accoglienza dei naufraghi. Un tentativo fallito, con il definitivo accantonamento del Protocollo provvisorio di Malta, stipulato lo scorso anno con alcuni paesi europei, per la chiusura delle frontiere e la sospensione del Regolamento Dublino e del Trattato di Schengen da parte di tutti gli stati membri dell’Unione Europea.

La risposta del governo alla richiesta proveniente dalla Alan Kurdi di fornire un porto di sbarco sicuro si è quindi risolta in un Decreto interministeriale che costituisce sul piano amministrativo un inasprimento del decreto sicurezza bis (D.L. n. 53/2019, convertito nella L. n. 77/2019) voluto da Salvini quando era ministro dell’interno. Nelle stesse ore nelle quali il governo italiano bloccava lo sbarco dei naufraghi soccorsi dalla Alan Kurdi, ormai giunta nella zona SAR italiana a sud di Lampedusa, un’ altra imbarcazione di legno con decine di migranti partita dalle coste libiche entrava nel porto di Lampedusa sotto scorta della Guardia di Finanza, ed un altro piccolo sbarco “autonomo” si verificava in provincia di Trapani. Mancano ancora notizie di un altro barcone che, dopo la partenza dalla Libia, sembrava diretto verso le coste siciliane. Sembrerebbe che anche questo, nella scorsa notte, sia arrivato a Lampedusa. Gli sbarchi evidentemente non si arrestano con misure amministrative e di polizia che si pongono al di fuori del principio di legalità e dello stato di diritto, impedendo il completamento delle operazioni di soccorso in acque internazionali.

Nella giornata del 7 aprile, dopo un tentativo di coinvolgimento della Croce Rossa nel trasbordo su un’altra nave (militare ?) dei naufraghi soccorsi dalla Alan Kurdi, il ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il ministro degli esteri, con il ministro dell’interno, e con il ministro della salute, ha adottato un decreto interministeriale “mirato” che, con esclusivo riferimento ai “casi di soccorso effettuati da parte di unità navali battenti bandiera straniera al di fuori dell’area SAR italiana”, dichiara che “per l’intero periodo dell’emergenza sanitaria derivante dalla diffusione del virus COVID-19, i porti italiani non assicurano i necessari requisiti per la classificazione e definizione di Place of Safety (“luogo sicuro”, in virtù di quanto previsto dalla Convenzione di Amburgo, sulla ricerca ed il salvataggio marittimo”.

Nel riferimento alle “navi straniere” si potrebbero ricomprendere anche navi di altri paesi come navi commerciali o navi militari, ma da anni le navi commerciali non effettuano soccorsi in acque internazionali, se non in rari casi nei quali hanno piuttosto collaborato con i libici, e le navi della missione IRINI di Eunavformed, hanno per mandato come porto di sbarco un porto greco. Frontex ha ritirato da tempo i suoi assetti navali presenti nel mediterraneo centrale perchè coinvolti in troppi eventi di soccorso e ritenuti dunque un pull factor (fattore di attrazione). Il decreto interministeriale, in nome della tutela della salute ( anche dei migranti), è quindi mirato principalmente ad impedire lo sbarco in un porto italiano dei soli naufraghi soccorsi dalle Organizzazioni non governative.

Il decreto interministeriale adottato dal ministro delle infrastrutture ha natura di atto amministrativo ed incide gravemente su materie coperte dalla riserva di legge e disciplinate da Convenzioni internazionali che non sono derogabili da atti discrezionali di singoli ministri, come peraltro ha riconosciuto recentemente la Corte di Cassazione nel caso Rackete.

L’efficacia del decreto interministeriale ad navem

Le norme di provenienza internazionale, peraltro, non possono essere richiamate a convenienza, ma vanno lette nel loro complesso ed applicate secondo le leggi di attuazione ed alla luce del richiamo che ne fanno gli articoli 10 e 117 della Costituzione italiana. Gli orientamenti prevalenti della giurisprudenza hanno finora escluso che atti di natura amministrativa possano derogare norme di fonte internazionale aventi forza di legge per effetto delle leggi di attuazione e del dettato costituzionale. Esiste ancora il principio di gerarchia delle fonti e non appare derogabile in nome della proclamazione dello stato di emergenza da COVID-19, adottato dal governo italiano il 31 gennaio scorso. Non si può utilizzare lo stato di emergenza derivante da una pandemia per criminalizzare ulteriormente gli interventi di soccorso umanitario operati dalle navi delle ONG, alle quali si nega il porto sicuro di sbarco, impedendo così il completamento delle operazioni di salvataggio in alto mare.

La Corte di Cassazione, con la decisione dello scorso febbraio, ha confermato “la valutazione del Giudice di Agrigento, che ha ritenuto non ci fossero i presupposti per convalidare l’arresto, eseguito in quel descritto contesto fattuale, poiché operante il divieto di cui all’art. 385 cod. proc. pen., è corretta. La verosimile esistenza della causa di giustificazione è stata congruamente argomentata. In questo ambito, il provvedimento ripercorre, necessariamente, le fonti internazionali (Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare, SOLAS- Safety of Life at Sea, Londra, 1974, ratificata dall’Italia con la legge n. 313 del 1980; Convenzione SAR di Amburgo del 1979, resa esecutiva dall’Italia con la legge n. 147 del 1989 e alla quale è stata data attuazione con il D.P.R. n. 662 del 1994; Convenzione UNCLOS delle Nazioni Unite sul diritto del mare, stipulata a Montego Bay nel 1982 e recepita dall’Italia dalla legge n. 689 del 1994), sia allo scopo di individuare il fondamento giuridico della causa di giustificazione, identificata nell’adempimento del dovere di soccorso in mare, sia al fine di delinearne il contenuto idoneo a scriminare la condotta di resistenza.

Proprio le citate fonti pattizie in tema di soccorso in mare e, prima ancora, l’obbligo consuetudinario di soccorso in mare, norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta e pertanto direttamente applicabile nell’ordinamento Io interno, in forza del disposto di cui all’art. 10 comma 1 Cost. – tutte disposizioni ben conosciute da coloro che operano il salvataggio in mare, ma anche da coloro che, per servizio, operano in mare svolgendo attività di polizia marittima -, sono il parametro normativo che ha guidato il Giudice nella valutazione dell’operato dei militari per escludere la ragionevolezza dell’arresto della Rackete, in una situazione nella quale la citata causa di giustificazione era più che “verosimilmente” esistente. Nè si potrebbe ritenere, come argomenta il ricorrente, che l’attività di salvataggio dei naufraghi si fosse esaurita con il loro recupero a bordo della nave. L’obbligo di prestare soccorso dettato dalla convenzione internazionale SAR di Amburgo, non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. “piace of safety”).

Il punto 3.1.9 della citata Convenzione SAR dispone: «Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione (Marittima Internazionale). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile».

Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004) allegate alla Convenzione SAR, dispongono che il Governo responsabile per la regione SAR in cui sia avvenuto il recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito. Per l’Italia, il piace of safety è determinato dall’Autorità SAR in coordinamento con il Ministero dell’Interno. Secondo le citate Linee guida, «un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse; dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale» (par. 6.12). «Sebbene una nave che presta assistenza possa costituire temporaneamente un luogo sicuro, essa dovrebbe essere sollevata da tale responsabilità non appena possano essere intraprese soluzioni alternative». (par. 6.13)”.

Per la Corte di Cassazione, “Non può quindi essere qualificato “luogo sicuro”, per evidente mancanza di tale presupposto, una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi metereologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse. Né può considerarsi compiuto il dovere di soccorso con il salvataggio dei naufraghi sulla nave e con la loro permanenza su di essa, poiché tali persone hanno diritto a presentare domanda di protezione internazionale secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, operazione che non può certo essere effettuata sulla nave. Ad ulteriore conferma di tale interpretazione è utile richiamare la risoluzione n. 1821 del 21 giugno 2011 del Consiglio d’Europa (L’intercettazione e il salvataggio in mare dei domandanti asilo, dei rifugiati e dei migranti in situazione irregolare), secondo cui «la nozione di “luogo sicuro” non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali» (punto 5.2.) che, pur non essendo fonte diretta del diritto, costituisce un criterio interpretativo imprescindibile del concetto di “luogo sicuro” nel diritto internazionale”.

Appare evidente come, nelle premesse giustificative del decreto interministeriale qui in esame, il ministro delle infrastrutture, di concerto con gli altri ministri coinvolti nella firma del provvedimento, abbia richiamato solo parzialmente il diritto internazionale del mare con un richiamo a tutte quelle motivazioni adottate in precedenza da Salvini per le ordinanze “ad navem” che tendevano a “chiudere” i porti italiani. Ma solo con esclusivo riferimento alle navi delle Organizzazioni non governative che avessero effettuato attività di soccorso in mare, con motivazioni puntualmente disattese da diverse decisioni dei giudici di merito, e da ultimo dalla Corte di cassazione, che hanno ribadito l’obbligo dello Stato italiano di indicare un porto di sbarco sicuro quando comunque una nave soccorritrice fosse entrata nella zona SAR ( ricerca e salvataggio) italiana, salva la successiva valutazione in sede giurisdizionale del comportamento del comandante e dell’equipaggio.

Il quadro normativo internazionale

Tra gli atti internazionali richiamati nelle premesse e il contenuto normativo del provvedimento, si ricordi un atto amministrativo adottato da alcuni ministri, e non una fonte primaria di legge, si richiamano Convenzioni che sono violate dal provvedimento e non certo ne costituiscono una premessa logica o legale. Il decreto firmato ieri dai ministri delle infrastrutture, degli esteri (?), dell’interno e della salute, proprio per quanto affermato dalla giurisprudenza, viola la Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo che vieta trattamenti inumani o degradanti e i respingimenti collettivi ( art. 4 del Quarto Protocollo allegato alla Convenzione) e l’art. 33 della Convenzione di Ginevra che impone di prendere in esame tutte le eventuali richieste di protezione delle persone che giungono ad una frontiera, seppure marittima, senza procedere a respingimenti indiscriminati, come si realizzerebbero invece con la chiusura dei porti di sbarco attraverso la dichiarazione che, in questo momento di crisi sanitaria, l’Italia non sarebbe in grado di garantire “porti sicuri di sbarco”.

Solamente se i naufraghi sono soccorsi da navi battenti bandiera straniera al di fuori della zona SAR italiana. Una misura che appare gravemente discriminatoria e che non è neppure in linea con una interpretazione integrata e coerente del Diritto internazionale del mare che non si può esaurire, come invece si rileva del decreto interministeriale, nel mero richiamo dell’art. 19 della Convenzione UNCLOS di Montego Bay. Con lo stesso artificio interpretativo adottato dalle ordinanze di Salvini prima e dal decreto sicurezza bis poi, che la Giurisprudenza ha ritenuto non idoneo a piegare la valenza cogente delle Convenzioni internazionali e del diritto dei rifugiati, quando si tratta di salvataggio in mare e di accesso al territorio per chiedere protezione.

Le altre premesse giustificative del decreto interministeriali si risolvono nel richiamo ai diversi provvedimenti adottati dal governo dopo la dichiarazione dello stato di emergenza COVID 19 il 31 gennaio scorso, per fronteggiare il diffondersi dell’epidemia, provvedimenti che non sembrano però idonei a sospendere l’applicazione dello stato di diritto e la applicabilità delle norme internazionali in materia di ricerca e soccorso dei naufraghi o delle persone comunque in pericolo (distress) in acque internazionali. Ed appare certamente fuori luogo il richiamo a provvedimenti come il DPCM 11 marzo 2020 con il quale si riducono o si sopprimono “i servizi automobilistici interregionali e di trasporto ferroviario, aereo e marittimo”, o al Decreto interministeriale n. 120 del 17 marzo 2020 con il quale si disciplinano “le misure di ingresso delle persone fisiche in Italia e le relative prescrizioni al fine di evitare la diffusione ed il contagio del COVID-19”. Misure di carattere amministrativo che evidentemente non fondano alcun potere del ministro delle infrastrutture circa la decisione di impedire lo sbarco in un porto italiano soltanto dei naufraghi soccorsi da una nave battente bandiera straniera, atteso che continuano regolarmente gli sbarchi “autonomi” e quelli effettuati con l’assistenza di mezzi della Guardia di finanza. Se vi sono pericoli di carattere epidemiologico non si vede perchè non possono essere affrontati con procedure di quarantena e di accertamenti sanitari, come peraltro è avvenuto fino a poche settimane nel caso di soccorsi operati da altre navi umanitarie, da ultimo la Ocean Viking di SOS Mediterraneé.

Il pretesto dell’epidemia di Covid-19

A fronte dell’esiguo numero di profughi soccorsi in mare dalla Alan Kurdi, e dalle limitate prevedibili capacità di intervento di questa stessa nave, l’unica rimasta operativa dopo il ritiro delle altre ONG, laddove fosse rimessa nelle condizioni di operare altri soccorsi nel Mediterraneo centrale, appare davvero pretestuosa la motivazione del decreto interministeriale, secondo cui, tenuto contro della situazione di emergenza connessa alla diffusione del Coronavirus e dell’attuale “situazione di criticità dei Servizi sanitari regionali”, e dell’”impegno straordinario svolto dai medici e da tutto il personale sanitario per l’assistenza ai pazienti Covid-19, ” non risulta allo stato possibile assicurare sul territorio italiano la disponibilità di tali luoghi sicuri ( luoghi di sbarco sicuri, n.d.a.), senza compromettere la funzionalità delle strutture nazionali sanitarie,logistiche e di sicurezza dedicate al contenimento della diffusione del contagio e di assistenza e cura ai pazienti Covid-19″.

Per quanto si richiami la dichiarazione del 30 gennaio 2020 con la quale l’OMS (Organizzazione mondiale della sanità) ha dichiarato la natura pandemica del COVID 19, non si rinviene ancora alcun caso di positività ai migranti soccorsi negli ultimi mesi dalle navi umanitarie nel Mediterraneo centrale, e non sembra comunque che tale tipo di argomentazione, seppure collegata alla dichiarazione dello stato di emergenza adottato dal governo italiano il 31 gennaio scorso, possa sospendere l’applicazione delle norme internazionali, europee ed interne che nella interpretazione che ne ha fornito la giurisprudenza, fino alla sentenza della Corte di cassazione dello scorso febbraio, ribadiscono l’obbligo degli stati di completare le operazioni di salvataggio da chiunque svolte, garantendo un luogo sicuro di sbarco.

Altre motivazioni addotte alla base del decreto ministeriale adottato dal governo, come la possibilità, non documentata, che tra i naufraghi vi possano essere soggetti positivi al COVID-19, o la considerazione che alle persone soccorse deve essere assicurata “l’assenza di minaccia per la propria vita, il soddisfacimento di necessità primarie e l’accesso a servizi fondamentali sotto il profilo sanitario, logistico e trasportistico”, se non il riferimento all’impegno delle forze di polizia nel controllo del territorio, tradiscono la pretestuosità del decreto che sembra mirato esclusivamente a bloccare le attività di ricerca e salvataggio in mare delle ONG, con una ulteriore ed indebita criminalizzazione delle attività di soccorso umanitario.

Il decreto interministeriale tradisce la sua vera finalità, che mira a costituire ulteriori premesse per iniziative dei prefetti e della magistratura che portino al sequestro delle navi umanitarie ed alle incriminazioni dei comandanti e dei capi missione, quando nell’individuare i casi di soccorso che sarebbero compresi nel divieto di sbarco in un porto italiano, atteso che l’Italia intera non potrebbe garantire un place of safety (POS), un porto di sbarco sicuro, fa riferimento esclusivamente ” ai casi di soccorso effettuati da parte di unità battenti bandiera straniera che abbiano condotto le operazioni al di fuori dell’area SAR italiana, in mancanza del coordinamento del IMRCC Roma”.

Sarebbe dunque il “coordinamento” delle attività SAR da parte della Centrale operativa della Guardia costiera italiana, ormai indirizzata dalle scelte del ministro dell’interno, che distinguerebbe i soccorsi per i quali i porti italiani resterebbero aperti, pure in presenza della pandemia da COVID-19, da quelli per i quali l’Italia non sarebbe in grado di garantire porti sicuri di sbarco, quelli operati dalle ONG e comunque da navi battenti bandiera straniera, al di fuori della zona SAR italiana e senza il “coordinamento” delle autorità italiane.

Le analogie con il decreto Salvini

In considerazione della collaborazione in corso da tempo con la sedicente guardia costiera “libica”, riconfermata ancora di recente anche a livello europeo con l’operazione IRINI di Eunavfor Med, e dei pregressi accordi e protocolli stipulati dall’Italia con il governo di Tripoli, in particolare il Memorandum d’intesa del 3 febbraio 2017, si può ritenere che il decreto interministeriale adottato ieri riconfermi implicitamente l’obbligo delle navi straniere che soccorrano naufraghi nella pretesa zona SAR libica, di riconsegnare le persone alle motovedette di quel paese. Le stesse motovedette che riconducono i naufraghi nei centri di detenzione alla mercé dei trafficanti e che ancora pochi giorni fa non hanno esitato ad aprire il fuoco per impedire una operazione di salvataggio già avviata dalla Alan Kurdi. Sarà altro materiale per le attività istruttorie del Tribunale Penale internazionale sulla collaborazione tra la guardia costiera libica e le autorità italiane, ma potrebbe diventare presto, se scatteranno altre incriminazioni a carico degli operatori umanitari, oggetto di indagine da parte della magistratura italiana.

La giustificazione del decreto interministeriale consistente nella motivazione che “le attività assistenziali e di soccorso da attuarsi nel ‘porto sicuro’ possono essere assicurate dal paese di cui le unità navali battono bandiera laddove abbiano condotto le operazioni al di fuori dell’area SAR italiana, in assenza del coordinamento del IMRCC Roma”, si risolve in una grave reiterazione delle motivazioni sottese alle ordinanze adottate dal precedente ministro dell’interno Salvini contro le navi umanitarie e risulta in contrasto con il diritto internazionale che non consente allo stato nella cui zona SAR si trovi già l’imbarcazione soccorritrice di respingere a tempo indeterminato i naufraghi, trattenuti a bordo contro la loro volontà in condizioni di estremo disagio fisico e psichico. Non è del resto dimostrato o dimostrabile che le imbarcazioni che hanno provveduto a salvare vite in mare abbiano le dotazioni necessarie, in termini di sicurezza, autonomia e viveri per raggiungere il paese di bandiera con il loro “carico umano”. Come non appare possibile, e questo lo ribadisce bene la Corte di cassazione e la giurisprudenza italiana, che le trattative con i governi di altri paesi siano svolte sotto il ricatto del trattenimento indebito dei naufraghi a bordo della nave soccorritrice. Un copione triste che abbiamo già visto con le scelte del governo di cui Salvini era ministro dell’interno, e che adesso viene riproposto in versione “emergenza da COVID-19”, in assenza di altri presupposti legali, e potremmo aggiungere morali e politici.

Un decreto Salvini in formato Covid-19

Dopo tali premesse il decreto interministeriale stabilisce nel suo articolo 1 (ambito di applicazione) che “per l’intero periodo di stato di emergenza sanitaria nazionale derivante dalla diffusione del virus COVID-19, i porti italiani non assicurano i requisiti necessari per la classificazione e definizione di Place of safety (“liogo sicuro”), in virtù di quanto previsto dalla Convenzione di Amburgo sulla ricerca ed il salvataggio marittimo, per i casi di soccorso effettuati da parte di unità navali battenti bandiera straniera al di fuori dell’area SAR italiana”. La portata normativa del provvedimento non va oltre, perchè l’altro articolo del provvedimento, l’art. 2 (Disposizioni generali) si limita a stabilire i termini temporali di efficacia, che scatta “dalla data della sua adozione”, e che dunque non può avere effetto retroattivo, e “per la durata del periodo di emergenza sanitaria di cui alla deliberazione del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020”.

Risulta così evidente come si è voluto in questo modo rafforzare la valenza operativa del decreto sicurezza bis del 2018 costituendo i presupposti per consentire al ministero dell’interno di negare, soltanto alle navi straniere, e dunque alle ONG che non battono bandiera italiana, la indicazione di un porto sicuro di sbarco, che invece la Giurisprudenza riconosce come obbligo delle autorità marittime e di governo dello stato. La sostituzione improvvisa del prefetto di Agrigento lascia presagire un nuovo divieto di ingresso in linea con gli indirizzi politici del governo e con il decreto interministeriale. Si vuole al contempo attribuire rilevanza penale al comportamento dei comandanti delle navi umanitarie che dopo avere soccorso naufraghi in acque internazionali hanno il diritto-dovere di sbarcarli in un porto sicuro (place of safety-POS), definizione che è data dal diritto internazionale del mare, e dalle norme di rango legislativo che lo recepiscono in Italia, e che non può essere artificiosamente stravolta da un provvedimento amministrativo di natura discrezionale, seppure motivato dallo stato di emergenza proclamato il 31 gennaio scorso per il diffondersi del COVID-19.

La persistente criminalizzazione delle ONG

Rimangono ancora inascoltati gli appelli che l’OIM e l’UNHC hanno lanciato perchè anche nel Mediterraneo centrale si garantissero vie legali di fuga e missioni di soccorso coordinate tra gli stati e le Organizzazioni non governative. Ci sarebbe da auspicare, ma le più recenti convulse reazioni all’emergenza delle forze politiche in Parlamento non lasciano molto da sperare, che i principi sanciti dalla Corte di Cassazione vengano riconosciuti anche dal legislatore con l’abrogazione degli articoli 1 e 2 del decreto sicurezza bis (D.L. n. 53/2019, convertito nella L. n. 77/2019) che permettevano, e permettono tuttora al ministro dell’interno, piuttosto che al ministro delle infrastrutture, di impedire o ritardare lo sbarco in un porto sicuro dei naufraghi soccorsi da mezzi privati, soprattutto nel caso in cui questi appartengano alle organizzazioni non governative, ritenute “complici dei trafficanti”“taxi del mare”, “fattori di attrazione (pull factor)“, definizioni spregevoli in contrasto con la realtà, oltre che con i dati normativi, che adesso i chiari principi affermati dalla Corte di cassazione avrebbero dovuto spazzare via. Sarà importante che tali principi, soprattutto nella parte in cui si ribadiscono gli obblighi di soccorso a carico degli stati fino alla indicazione di un porto di sbarco sicuro, già presi in considerazione nei numerosi casi di archiviazione delle accuse contro le ONG, siano tenuti presenti negli eventuali procedimenti giudiziari che potrebbero essere avviati nei confronti degli operatori umanitari della Alan Kurdi, come nei diversi processi ancora aperti a Trapani (Iuventa), ancora nella fase delle indagini preliminari a quasi tre anni dai fatti, ed a Ragusa (Open Arms), addirittura per violenza privata.

La mancanza di un piano sbarchi del governo, di fronte alla ripresa delle partenze dalla Libia in piena guerra civile, sta offrendo il pretesto per riaccendere la tensione nei luoghi di arrivo ed a Lampedusa in particolare. Il prezzo più alto di questa ennesima violazione del diritto internazionale in nome dello stato di emergenza, non sarà pagato dagli operatori umanitari ma soprattutto dai migranti, che ancora in questi giorni, se non raggiungono direttamente le coste italiane, risultano dispersi. Migliaia di persone che a causa della pressione esercitata sulle navi delle ONG, a partire dal Memorandum di intesa con il governo di Tripoli del 2 febbraio 2017 e del Codice di condotta adottato dall’ex ministro dell’interno Minniti, sono state abbandonate in mare o respinte con l’aiuto della sedicente guardia costiera “libica”. La guardia costiera di un governo che non controlla neppure il territorio della capitale e che, come è stato dimostrato, risulta collusa con le organizzazioni criminali che tutti a parole dicono di volere combattere. Con questa guardia costiera, piuttosto che con le navi umanitarie delle ONG, il governo italiano, con la scelta di non garantire un porto di sbarco sicuro ai naufraghi che siano soccorsi al di fuori della zona SAR italiana, preferisce adesso collaborare in nome dell’emergenza da COVID 19.

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