Accordi con i trafficanti e politiche dell’abbandono in mare: la strage continua

L’intensificarsi della guerra civile sta aumentando i rischi anche per i civili intrappolati nelle zone degli scontri e segna un drammatico peggioramento della condizione dei migranti presenti in quel paese, oltre che degli stessi libici. Riparte la campagna delle destre sovraniste e populiste contro chi opera ancora soccorsi in acque internazionali nel Mediterraneo centrale

di Fulvio Vassallo Paleologo

Davanti alle bare raccolte su un furgone al molo di Lampedusa le parole non bastano più. Mentre riparte la campagna delle destre sovraniste e populiste contro chi opera ancora soccorsi in acque internazionali nel Mediterraneo centrale, dopo il ritiro degli assetti navali europei e la scomparsa (anche dai rilievi satellitari) dei mezzi di soccorso italiani, in mare si continua a morire. Anche quando la salvezza sembra ormai ad un passo. Se alla fine di settembre avevano potuto contare sulla sedicente guardia costiera libica per nascondere quello che l’UNHCR Libia aveva segnalato come un naufragio, adesso davanti alle bare che accolgono sul molo Favaloro i poveri resti di quest’ultima tragedia, a poche miglia dalle coste di Lampedusa, non si può proprio negare l’evidenza.

Le prassi operative di abbandono in mare basate sulla collaborazione con la sedicente guardia costiera “libica” e sul tracciamento aereo delle imbarcazioni in difficoltà, fino al loro ingresso nelle acque territoriali, riducono le speranze di sopravvivenza di chi si trova comunque, su un mezzo fatiscente e sovraccarico, a decine di miglia dalla costa più vicina, in situazione di “distress” immediato. Una situazione che impone agli stati di organizzare con la massima tempestività i soccorsi, con trasbordo su mezzi di salvataggio e sbarco nel porto sicuro più vicino. Questo imporrebbe il diritto internazionale, e questo sulla rotta del Mediterraneo centrale viene da anni eluso dai governi di Italia e Malta e dai vertici delle operazioni Frontex ed Eunavfor Med (Sophia).

Le politiche migratorie praticate dall’Unione Europea e dall’Italia a partire dal 2015, dalla fine dell’Operazione Mare Nostrum, sono state mortali e criminogene. Migliaia le vittime in mare, non certo frutto della presenza delle ONG, come alcuni squallidi commentatori vorrebbero asserire, accordi sempre più torbidi con le milizie locali per impedire le partenze dalla Libia, e la continua ricerca di intese con regimi autoritari, che non garantiscono i diritti umani, per ottenere il rimpatrio forzato di quelli che si vedono respinta una richiesta di asilo. Mentre a Lampedusa si contano morti e dispersi stiamo assistendo ad un rimpallo di responsabilità tra il governo italiano e l’OIM (Organizzazione internazionale delle migrazioni) sulla presenza di un noto trafficante di Zawia nella delegazione libica che nel maggio del 2017 trattava con le autorità e la guardia costiera italiana dopo la stipula degli accordi bilaterali firmati il 2 febbraio 2017. Sta emergendo soltanto adesso cosa ha prodotto il drastico calo delle partenze dalla Libia nella seconda metà del 2017.

A livello interno, si stanno verificando tutti gli effetti perversi dello stravolgimento delle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato e dell’abolizione della protezione umanitaria, frutto del primo decreto sicurezza ( legge n.132/2018), che ha trasformato in “clandestini” persone che, dopo le sofferenze subite in Libia, avrebbero avuto diritto ad uno status legale in Europa. Con il decreto sicurezza bis n.53 dello scorso giugno, poi inasprito nel corso dell’iter parlamentare di conversione in legge, si sono formalizzate le prassi di abbandono in mare e di guerra contro le ONG ed i naufraghi che queste soccorrevano, con le conseguenze che vediamo ancora oggi. Il Mediterraneo centrale è stato trasformato in un deserto liquido. Chissà quante persone sono annegate senza che se ne sapesse nulla. Nessuno si spinge più ad operare attività di ricerca e salvataggio in quella vasta zona che è stata impropriamente definita come “zona SAR libica”, e le autorità maltesi non presidiano neppure la loro estesa zona SAR, limitandosi ad intervenire quando le imbarcazioni cariche di migranti riescono a raggiungere le acque territoriali ( 12 miglia dalla costa di Malta). La politica della deterrenza passa anche attraverso l’allontanamento o il sequestro amministrativo, se non penale, delle navi delle ONG, anche per impedire la presenza, nel mare dell’abbandono, di testimoni scomodi. Al di fuori delle acque maltesi ed italiane persino le rotte dei mezzi navali e degli aerei di soccorso vengono sistematicamente oscurate, proprio quando è evidente che si dirigono verso target che corrispondono a barconi in difficoltà nelle acque che si vorrebbero riservare al controllo dei libici.

Quando si tratta di soccorrere in mare non ci sono “migranti”, o peggio “clandestini”, ma persone, naufraghi da soccorrere immediatamente, senza indugiare per negoziare accordi con altri paesi e senza calcolare l’impatto elettorale dei soccorsi su una opinione pubblica sempre più indifferente e cinica. Non destano più pietà donne e bambini dispersi per mare, come sempre i più vulnerabili. Oltre l’assuefazione, si diffonde il disprezzo e la criminalizzazione per loro e per chi cerca ancora di prestare i soccorsi.

Dopo anni in cui tutti i governi hanno insistito sulla necessità di coniugare rigore e umanità, ad esempio con i Migration compact, il bilancio è sempre più tragico, le politiche di esternalizzazione impongono costi umani sempre più elevati, ed una svolta non si vede neppure con il nuovo governo. I porti rimangono chiusi, ma soltanto per le ONG, e i soccorsi operati dalle unità statali avvengono sempre più vicino alle coste italiane, dopo ore dalle prime segnalazioni, ore che possono fare la differenza tra la vita e la morte. Molti migranti soccorsi in questi ultimi giorni raccontano di essere stati bloccati in diverse occasioni dalla guardia costiera libica e di essere stati rivenduti ai trafficanti. Una conferma dei legami tra la guardia costiera libica e le mafie locali che in Libia controllano il territorio. Quando si parla di Libia, come osserva Sara Creta, si dovrebbe anche considerare il ruolo di alcune grandi organizzazioni internazionali, come l’UNHCR Libya e le concrete possibilità di tutela delle persone migranti intrappolate in quel paese, con l’unica alternativa di fuggire affidandosi ai trafficanti. Rimpatri volontari e reinsediamenti verso paesi sicuri riguardano soltanto una minima parte di loro, e la corruzione dilaga ovunque.

La Libia non è, e non sarà per lungo tempo un “paese terzo sicuro”, ed i progetti di umanizzazione dei centri di detenzione sono finora falliti. L’intensificarsi della guerra civile sta aumentando i rischi anche per i civili intrappolati nelle zone degli scontri e segna un drammatico peggioramento della condizione dei migranti presenti in quel paese, oltre che degli stessi libici. I propositi europei di realizzare in Libia centri controllati e grandi piattaforme di sbarco, dopo i respingimenti delegati alla guardia costiera libica sono irrealizzabili e costituiscono un insulto per tutti coloro che sono comunque condannati a morire nel tentativo di una fuga in mare. I progetti che da Bruxelles hanno riversato milioni di euro sulla Libia non hanno migliorato la condizione dei migranti né favorito i processi di stabilizzazione, interrotti da quando ad aprile di quest’anno il generale Haftar ha lanciato l’attacco finale sulla città di Tripoli.

Una situazione ormai documentata, sulla quale si attende solo un approfondimento di indagine da parte della magistratura. Una situazione comunque evidente da tempo, che dovrebbe imporre una cancellazione immediata degli accordi con il governo Serraj, che non garantisce un minimo di legalità sui residui territori che ancora controlla. Sarebbe anche auspicabile una severa autocritica da parte di chi quegli accordi li ha proposti e firmati, e poi attuati, imponendo alle ONG un codice di condotta che si basava sul riconoscimento della subordinazione degli interventi di soccorso alle decisioni dei guardiacoste libici, collusi con i trafficanti, e sulla deresponsabilizzazione delle autorità marittime italiane ed europee. Che dall’estate del 2017 hanno cominciato a non rispondere con interventi immediati alle chiamate di soccorso provenienti dal Mediterraneo centrale, trasferendo le responsabilità sui guardiacoste libici che nel frattempo l’Italia regalava al governo di Tripoli.

Senza la sospensione immediata del riconoscimento di una zona SAR libica e senza la denuncia degli accordi bilaterali intercorsi con il governo di Tripoli, che hanno alimentato le filiere criminali, piuttosto che contrastarle, qualunque proposito di svolta nelle politiche di controllo delle frontiere marittime e nei rapporti con i paesi terzi si tradurrà soltanto in un incremento delle misure repressive, come i rimpatri forzati, che non avranno alcun effetto deterrente su persone che, per fuggire dalla Libia, preferiscono sfidare la morte in mare, piuttosto che continuare a subire abusi e torture a scopo estorsivo nei centri di trattenimento gestiti dalle milizie. Eppure soltanto lo scorso anno l’ex ministro dell’Interno Salvini aveva riaffermato la necessità di “smontare la retorica delle torture” nei centri libici, e sulla politica dei porti chiusi e della collaborazione con la guardia costiera “libica” ha costruito le sue fortune elettorali. Ancora oggi proseguono processi basati su prove raccolte dai servizi o su regole di comportamento che non hanno alcuna base legale, come il divieto dell’uso dei fari di illuminazione nelle missioni di soccorso notturno. Come si possono trovare in altro modo le persone che di notte in mare combattono tra la vita e la morte? Sono legittimi ancora oggi i provvedimenti che vietano alle navi private, dopo i soccorsi in acque internazionali, l’ingresso nelle acque territoriali ? Il rispetto del diritto internazionale del mare può diventare “violenza privata” quando si cerca di sbarcare i naufraghi a terra in un porto sicuro? Quanto rimane del diritto all’informazione, dopo anni di accuse infamanti contro le ONG, basate sulla pretesa collaborazione con le autorità libiche?

In un comunicato, Oscar Camps, presidente della ONG Proactiva Open Arms, ha denunciato come l’allontanamento delle navi umanitarie ed il mancato coinvolgimento nelle operazioni di soccorso (stranamente ripreso a naufragio avvenuto, con la nave Ocean Viking di SOS Mediterraneé) possa aver causato altre vittime. «Ieri sera l’Open Arms si trovava in zona Sar maltese, dopo essere partita dal porto di Siracusa – racconta Camps – per la sua sessantasettesima missione. Ci siamo accorti che almeno tre assetti aerei stavano sorvolando una zona più a Nord e abbiamo capito che stava accadendo qualcosa. La nave della ONG si reca dunque un miglio più a nord e avvista le luci di un’imbarcazione in legno in precarie condizioni di navigazione con 44 persone a bordo, tra cui 4 donne e 2 bambini piccoli. Dalle autorità maltesi, immediatamente allertate, arriva l’indicazione sconcertante di non intervenire e di lasciare che l’imbarcazione raggiunga in autonomia le coste italiane. Abbiamo messo in sicurezza le persone passando loro i giubbotti salvagente – spiega Oscar Camps – e abbiamo fatto presente che l’imbarcazione non aveva sufficiente benzina per raggiungere Lampedusa e che le sue condizioni non permettevano un viaggio così lungo. Dopo alcune ore di attesa – prosegue Camps – e senza ricevere più alcuna indicazione da parte delle autorità maltesi, la Ong effettua il trasbordo delle persone in pericolo sulla Open Arms e rimane in attesa di istruzioni». Ma per le ONG i porti italiani e maltesi rimangono ancora chiusi. E le navi umanitarie rimangono sotto sequestro anche quando vengono liberate dalla magistratura, perché intervengono i provvedimenti di sequestro amministrativo disposti dai prefetti in base al decreto sicurezza bis imposto da Salvini.

Il vertice europeo dei ministri dell’Interno e della Giustizia di Lussemburgo, che si è svolto il 7 ottobre, non ha prodotto nulla di fatto. Nessun passo quindi verso una modifica sostanziale delle regole di ingaggio delle missioni europee presenti nel Mediterraneo centrale, e senza una vera redistribuzione vincolante dei naufraghi, e non soltanto dei potenziali richiedenti asilo, tra tutti i paesi europei. La nuova Commissione sembra ancora invischiata nel compromesso maturato faticosamente nel Consiglio dell’Unione Europea del 28 giugno 2018, prima delle ultime elezioni europee, sotto il ricatto dei partiti sovranisti.

Era dunque prevedibile che i ministri riuniti a Lussemburgo non raccogliessero la richiesta del Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa Dunja Mijatovic che continuava a chiedere disospendere ogni collaborazione con la Libia” e fare in modo che il meccanismo per gestire congiuntamente sbarchi e ridistribuzione dei migranti porti anche alla “creazione di un sistema a lungo termine e ambizioso per diminuire la pressione dei flussi migratori su certi Stati come Italia, Grecia e Malta”. Secondo il Commissario, in una dichiarazione resa il giorno del vertice in Lussemburgo, “gli Stati Ue hanno la possibilità di prevenire nuovi disastri umanitari decidendo di sospendere ogni collaborazione con le autorità libiche che implica il ritorno in Libia dei migranti intercettati in mare, sino a quando il Paese non darà chiare garanzie sul pieno rispetto dei diritti umani”.

Tutti gli sforzi sono rimasti concentrati sulle politiche di esternalizzazione, sul modello degli accordi UE-Turchia, e sulle procedure di rimpatrio forzato (return). I partiti populisti e sovranisti non sono al governo, né in Europa né in Italia, ma condizionano l’agenda politica a Bruxelles come a Roma, e continuano a rastrellare consensi tra chi ritiene a rischio addirittura l’identità europea. Per questo si ritiene che le vite delle persone in fuga dalla Libia siano sacrificabili, per difenderci da una “invasione” che non esiste. Per questo la società è sempre più divisa tra chi accetta e sostiene le politiche di chiusura (non solo dei porti) e di morte e chi sceglie la solidarietà ed il diritto alla vita. La negazione delle stragi di sistema è un dato ormai acquisito come prassi di governo e strumento di comunicazione.

Cinquanta persone non stanno su un “barchino” ma su un piccolo peschereccio di 7-9 metri capace di raggiungere autonomamente le coste di Lampedusa senza il supporto di una “nave madre”. Per quanto tempo questo “barchino” è stato tracciato e seguito senza che nessuno intervenisse? Quanto pesano le prassi operative che distinguono tra il distress immediato e l’accompagnamento delle imbarcazioni con osservazione aerea o visiva ma senza impiego di assetti navali, come impongono le missioni Frontex ed Eunavfor Med? Occorreva attendere che “il barchino” entrasse nelle acque territoriali italiane? Sono stati forniti giubbetti salvagente ai naufraghi da parte delle unità che sono intervenute per prime, come fanno di prassi i mezzi di supporto (RIB) delle navi delle ONG ? Se occorreva attendere per i soccorsi che il barcone entrasse in acque italiane, quale vertice politico o amministrativo ha dato gli ordini e su quale base normativa? Se le navi delle ONG ancora sotto sequestro nel porto di Licata fossero state operative ci sarebbe stata qualche possibilità che le persone avrebbero potuto essere soccorse prima del loro ingresso nelle acque territoriali? Quante altre stragi simili si ripeteranno fino a quando non saranno rimesse in condizioni di operare tutte le navi delle ONG?

Pietà per le vittime e rispetto per i soccorritori che hanno profuso sicuramente tutte le loro forze per salvare vite umane condannate dalla politica degli accordi con i libici e dei porti chiusi. Politiche che continuano ad uccidere in piena continuità da un governo all’altro. I trafficanti e gli scafisti sono solo argomento di distrazione di massa e pedine di una partita che si gioca ai tavoli della politica, come quello di Lussemburgo, riunione del Consiglio dei ministri dell’interno e della giustizia dell’Unione Europea.

Su questo ultimo naufragio non abbiamo certezze, ma solo interrogativi che ci auguriamo possano essere risolti dalle indagini dell’autorità giudiziaria. Perché senza un rigoroso accertamento delle responsabilità, che non sono solo quelle degli scafisti e dei trafficanti, ma risalgono ai vertici politici ed amministrativi, queste tragedie si continueranno a ripetere, e sul dolore di tante vite disperse si alimenteranno soltanto odio e rancore.

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