Dal Viminale un divieto di soccorso, Trenta e Toninelli piegano la testa ancora una volta

Il trasferimento delle responsabilità di coordinamento delle operazioni di ricerca e salvataggio ad un’altra autorità SAR deve tenere conto delle esigenze di garantire comunque un intervento di salvataggio quanto più tempestivo possibile, e il rispetto del divieto di sbarco in un porto non sicuro

di Fulvio Vassallo Paleologo

L’ufficio libico dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) ha confermato la strage denunciata ieri da Alarm Phone: decine di morti, mentre 65 superstiti sono stati riportati in Libia. Soltanto cinque corpi sono stati recuperati, tra i numerosi dispersi tanti bambini. Secondo la stessa fonte il naufragio è stato confermato dalle autorità libiche. Questa volta non si potrà dire che le segnalazioni delle organizzazioni umanitarie sono dei falsi per attirare attenzione, come suole ormai ripetere la becera propaganda populista e negazionista. In mare si muore perché non si viene soccorsi in tempo. Quando dopo i primi avvistamenti o le chiamate di soccorso i salvataggi ritardano.

Da parte di Mediterranea, impegnata nei soccorsi a nord della costa libica con il rimorchiatore Mare Jonio, si denuncia che «ormai i Comandi militari e i Centri di coordinamento europei non rilanciano le segnalazioni di imbarcazioni in difficoltà, come sarebbe loro dovere fare, ma pare interloquiscano unicamente con le autorità libiche».

Ma non basta. Quest’ultima strage si è verificata dopo che le autorità italiane, con l’ENAV, di fatto alle dipendenze del ministero delle infrastrutture, hanno negato il permesso di volo ai due piccoli aerei delle organizzazioni non governative (Piloti Volontari), che facendo base a Lampedusa, fino a pochi giorni fa, da soli, avvistavano e segnalavano i barconi in difficoltà. Mentre gli assetti militari delle operazioni europee di Frontex (navi e aerei) e di Eunavfor Med (aerei), si limitavano a segnalare i naufraghi ai libici, supportati dalla missione italiana della marina militare Nauras, presente nel porto militare di Abu Sittah a Tripoli. Impedendo che le ONG potessero operare nel Mediterraneo centrale, intensificando la criminalizzazione degli operatori umanitari e sequestrando le loro navi, si sono completate le condizioni che hanno prodotto questa ennesima strage dell’abbandono in mare.

Il governo, ancora in carica, ed il ministero dell’interno portano responsabilità assai gravi che saranno accertate anche a livello internazionale. Responsabilità che erano e resteranno solidali e in concorso se si pensa che ancora oggi i ministri uscenti (?) della difesa Trenta e delle infrastrutture Toninelli, hanno apposto la loro firma ( di concerto) all’atto con cui il ministro Salvini ha imposto l’ennesimo divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane ad una piccola nave, la Eleonore, della ONG Lifeline che viene accusata di avere operato il soccorso senza cedere alle pressioni dei guardiacoste libici che volevano “riprendersi” i naufraghi ormai in acque internazionali, 30 miglia ( 55 chilometri circa) a nord di Khoms, per riportarli nell’inferno dal quale erano appena prima riusciti a fuggire. Una sorte che tocca quotidianamente a decine di persone intercettate in alto mare da motovedette della sedicente guardia costiera libica, assistita da unità navali ed aeree europee ed italiane. Ormai la maggior parte dei migranti che fuggono verso l’Italia e Malta dalle coste libiche vengono bloccati in alto mare dalle motovedette libiche, donate ed assistite dall’Italia, e quindi riportati in zone di guerra, dove oltre al rischio di perdere la vita, ritrovano la condanna all’internamento, al lavoro schiavistico, alle violenze sessuali ed agli abusi più diversi come la privazione del cibo e delle cure essenziali.

Poco importa che con una nota la ministro Trenta, in predicato di entrare nel nuovo governo, smentisca ancora una volta il suo precedente operato e dichiari che è stata costretta a firmare il “bando” di Salvini come “atto dovuto”. Una motivazione che non regge perché il divieto di ingresso nelle acque territoriali, che il ministro dell’interno ha adottato sulla base dell’art. 1 del decreto sicurezza bis, adesso convertito in legge, è un atto squisitamente discrezionale che il ministro dell’interno adotta sulla base di una valutazione che allo stato rimane priva di basi legali, con la minaccia di una sanzione penale-amministrativa, prevista all’art. 2 dello stesso decreto, che appare chiaramente incostituzionale, come persino il Presidente Mattarella ha ricordato alle camere al momento della promulgazione della legge.

La ministro Trenta non può neppure addurre a sua giustificazione che nella precedente occasione nella quale si era rifiutata di controfirmare ( per atto di concerto) un precedente divieto di ingresso nelle acque territoriale ( per la Open Arms) era intervenuta una misura cautelare sospensiva di un precedente divieto, relativo alla formulazione originaria del decreto legge sicurezza bis, che il Viminale tentava di bypassare approfittando della nuova formulazione del testo convertito in legge dal Senato.

Il Tribunale amministrativo del Lazio con una decisione cautelare in sede monocratica del 14 agosto , che il Viminale ha annunciato di avere impugnato al Consiglio di Stato mentendo spudoratamente, aveva sospeso l’efficacia di una interdittiva pronunciata da Salvini contro la nave della ONG Open Arms, affermando correttamente che ricorreva nell’atto del ministro dell’Interno contro la Open Arms il «vizio di eccesso di potere per travisamento dei fatti e di violazione delle norme di diritto internazionale del mare in materia di soccorso».

Il Presidente del Tar Lazio osservava la contraddittorietà del provvedimento di divieto, in quanto da un lato, riconosceva «che il natante soccorso da Open Arms (…) – quanto meno per l’ingente numero di persone a bordo – era in “distress”, cioè in situazione di evidente difficoltà», e quindi necessitava di soccorso immediato; ma, dall’altro lato, affermava che la sua entrata in acque italiane avrebbe dato luogo alla «peculiare ipotesi di “passaggio non inoffensivo”», in quanto preordinato a infrangere le leggi sull’immigrazione. Il Tar Lazio sospendeva quindi l’efficacia dell’atto di divieto, ritenendo, «alla luce della documentazione prodotta (medical report, relazione psicologica, dichiarazione capo missione)» che la situazione denunciata dal team legale di Open Arms fosse tale da giustificare l’ingresso della nave in acque italiane.

Un qualsiasi ministro della difesa, come anche il ministro delle infrastrutture, prima di apporre la firma come “atto di concerto” ad un provvedimento del ministro dell’interno dovrebbe accertarne tutti i presupposti di fatto e di legittimità, altrimenti non si comprende per quale ragione il legislatore ha richiesto questa ulteriore firma. Se poi si sposta la valutazione sulla disumanità del divieto, non si vede perché quello che era disumano due settimane fa nel caso Open Arms, oggi nei confronti della nave della ONG tedesca Lifeline appare al ministro Trenta come un “atto dovuto”.

Una volta che la Centrale nazionale di coordinamento di soccorso marittimo della Guardia Costiera di Roma (I.M.R.C.C.) abbia comunque ricevuto la segnalazione di un’emergenza e assunto il coordinamento iniziale delle operazioni di soccorso -anche se l’emergenza si è sviluppata fuori dalla propria area di competenza SAR – le Convenzioni internazionali impongono alle autorità italiane di portare a compimento il salvataggio individuando il luogo sicuro di sbarco dei naufraghi. Non mancano i richiami dell’UNHCR e della Commissione europea rivolti all’Italia perchè rispetti il principio dello sbarco dei naufraghi nel porto sicuro più vicino, a prescindere da ulteriori trattative sulla redistribuzione finale dei naufraghi o, meglio, dei richiedenti asilo.

Come è stato chiarito dal Contrammiraglio Liardo nell’audizione davanti alle Commissioni riunite della Camera il 3 luglio scorso: Ovviamente, non avendo tutti gli Stati costieri ratificato la convenzione, né provveduto ad organizzare una propria specifica organizzazione S.A.R., allo scopo sempre di tutelare il principio di integrità dei servizi S.A.R., le discendenti linee guida emanate dall’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO) un’agenzia delle Nazioni unite, in base a quanto espressamente previsto dalle citate convenzioni, prevedono che il primo MRCC che riceva notizia di una possibile situazione di emergenza S.A.R. ha la responsabilità di adottare le prime immediate azioni per gestire tale situazione, anche qualora l’evento risulti al di fuori della propria specifica area di responsabilità. Ciò almeno fino a quando tale responsabilità non venga formalmente accettata da un altro MRCC, quello competente per l’area o altro in condizioni di prestare una più adeguata assistenza (Manuale IAMSAR –Ed. 2016; Risoluzione MSC 167-78del 20/5/2004). Ciò determina la certezza, per ciascun navigante, di individuare l’Autorità responsabile per il soccorso della vita umana in mare.

Il trasferimento delle responsabilità di coordinamento delle operazioni di ricerca e salvataggio ad un’altra autorità SAR deve tenere conto delle esigenze di garantire comunque un intervento di salvataggio quanto più tempestivo possibile, e il rispetto del divieto di sbarco in un porto non sicuro. Altrimenti sarebbe molto semplice per gli stati liberarsi dei propri obblighi di ricerca e salvataggio a discapito delle persone che vanno soccorse in acque internazionali. Come non è consentito ricorrere al consueto espediente di trasferire la responsabilità SAR sulla Centrale di coordinamento (MRCC) del paese di bandiera della nave soccorritrice, distante magari migliaia di chilometri dall’area dei soccorsi.

Se le autorità di Malta hanno negato il loro consenso allo sbarco in un porto di quello Stato, l’Italia non può negare lo sbarco in un proprio porto sicuro, che diventa essenziale per completare le operazioni di salvataggio. Se, come risulta dagli ultimi rapporti delle Nazioni Unite, e come riconosce persino il ministro degli esteri Moavero la Libia non garantisce “porti di sbarco sicuri”, spetta al ministero dell’interno, di concerto con la Centrale operativa della guardia costiera (IMRCC) di Roma, indicare con la massima sollecitudine un porto di sbarco sicuro, anche se l’evento SAR si è verificato nelle acque internazionali che ricadono nella pretesa zona di ricerca e salvataggio “libica”. Una zona che ancora non corrisponde ad uno stato unitario, che rispetta il diritto di asilo ed i migranti in transito, e che disponga di una centrale operativa nazionale per i soccorsi.

E’ scandaloso che l’IMO, organismo collegato alle Nazioni Unite, con sede a Londra, per evidenti pressioni internazionali, “in primis” dall’Italia, non abbia respinto la comunicazione unilaterale del governo di Tripoli che il 28 giugno dello scorso anno dichiarava una propria zona SAR. Ma occorre anche ricordare in proposito il Codice di condotta Minniti, e le operazioni di intercettazione delegate ai libici, con motovedette donate dall’Italia, prima da Alfano e poi a partire dal luglio del 2017 da Minniti, proprio allo scopo di eliminare la scomoda presenza delle ONG. Troppi soccorsi, pull factor, taxi del mare, complici dei trafficanti, una valanga di fango contro i soccorsi umanitari, che è partita dai ministri e si è diffusa come una cancrena tra la popolazione.

Quando il Viminale contesta ai comandanti delle ONG di operare i soccorsi in acque internazionali, nella cd. zona SAR libica” in totale autonomia” dice una cosa falsa e non rispettosa del diritto internazionale. Le navi delle ONG dopo gli avvistamenti delle imbarcazioni in difficoltà, comunque a rischio di affondamento per il sovraccarico e per la mancanza di dotazioni di sicurezza, avvertono sempre le autorità italiane e maltesi, che rifiutano puntualmente di assumere il coordinamento delle operazioni di soccorso, che vengono trasferite da queste stesse autorità allertate per prime alla sedicente guardia costiera “libica”, ancora priva di una sua centrale di coordinamento nazionale, sia per la guerra civile in corso, che per la disorganizzazione che ancora la caratterizza. Dietro l’arrivo di una motovedetta libica, spesso con molte ore di ritardo rispetto alla segnalazione di una imbarcazione in difficoltà, ci sono sempre attività di assistenza e coordinamento di assetti militari italiani ed europei, come recenti rapporti riservati di EUNAVFOR MED hanno documentato in maniera inconfutabile.

Del resto anche in provvedimenti giudiziari adottati dai magistrati italiani è assodato che la Libia non garantisce porti sicuri di sbarco e che la sedicente guardia costiera “libica” opera sotto il coordinamento operativo di unità italiane ed europee. basti andare a leggere le sentenze e le ordinanze adottate a Catania, a Ragusa, ad Agrigento ed a Trapani. Operare “in autonomia” rispetto alla Guardia costiera libica fa la differenza tra la vita e la morte in mare, tra l’internamento in un lager libico a tempo indeterminato e la speranza di sbarco in un porto sicuro in Europa. Non è “buonismo”, o polemica politica, ma la rigorosa applicazione del diritto internazionale e della nostra Carta costituzionale che impone ai comandanti delle navi delle ONG di agire “in autonomia” rispetto agli ordini provenienti dalla sedicente guardia costiera libica, quella che invece Salvini ha ringraziato quando ha riportato centinaia di persone intercettate in alto mare, uomini, donne e bambini nei gironi infernali dei campi di detenzione in Libia.

Esistevano quindi tutti i presupposti perché i ministri (ci auguriamo) uscenti Trenta e Toninelli non firmassero il divieto di ingresso nelle acque territoriali imposto dal ministro dell’interno, un decreto che come emerge dal suo stesso testo, corrisponde ad un divieto di soccorso in acque internazionali, e può implicare pesanti responsabilità sul piano penale, amministrativo e civile.

L’intero provvedimento di divieto di ingresso rivolto alla ONG Lifeline, firmato dal ministro Salvini, ancora ben ancorato alla sua scrivania del Viminale per rilanciare la sua campagna elettorale, dimostra come si tratti in realtà di un vero e proprio divieto di soccorso e di un pesante condizionamento nei confronti della ONG che in acque internazionali, nella cosiddetta zona SAR libica, non si è piegata alla presenza intimidatoria della sedicente guardia costiera libica ed ha provveduto al soccorso immediato al fine di garantire ai naufraghi lo sbarco in un porto sicuro, come prescritto dalle Convenzioni internazionali. La firma “di concerto” apposta al provvedimento dai ministri Trenta e Toninelli segna una linea di demarcazione che non sarà facile superare nelle trattative per la formazione di un nuovo governo. Un segno di continuità che non si potrà dimenticare.

Il provvedimento di divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane notificato al comandante di Eleonore dal ministro dell’interno cita Convenzioni internazionali di diritto del mare che stabiliscono obblighi di soccorso ( in particolare le Convenzioni SAR e SOLAS) che non possono essere elusi con una lettura strumentale, pure fornita dallo stesso provvedimento di divieto, dell’art. 19 comma 2 della Convenzione di Montego Bay (UNCLOS) che consente agli stati di vietare in determinare condizioni l’ingresso nelle acque territoriali, in deroga al principio generale della libertà di navigazione e del diritto al “passaggio inoffensivo”. Non a caso l’art. 1 del decreto sicurezza bis 53 del 2018 fa espresso riferimento alle Convenzioni internazionali come limite inderogabile alla potestà sovrana dello stato, e si tratta di Convenzioni che possono valere ben oltre il divieto di ingresso nelle acque territoriali, come la Convenzione di Ginevra sui rifugiati che afferma il fondamentale principio di non respingimento (art.33). Per non parlare del divieto di respingimenti collettivi, sanzionato dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dall’art. 4 del Quarto Protocollo allegato alla CEDU. Norme che possono essere violate quando uno stato impedisce sulla base di motivazioni generiche ed infondate l’ingresso nelle acque territoriali ad una imbarcazione carica di naufraghi soccorsi in acque internazionali. In mare non esistono “clandestini” ma persone da soccorrere e fare sbarcare nel porto sicuro più vicino.

Gli obblighi di soccorso ovunque ci si trovi e di sbarco nel porto sicuro più vicino derivano anche dal Regolamento Frontex n.656 del 2014 peraltro espressamente richiamato dal successivo Regolamento sulla Guardia di frontiera e costiera europea n. 1624 del 2016, l’unico che il ministro dell’interno cita assai opportunisticamente per dare una base legale al suo provvedimento interdittivo. Ma anche a leggere quest’ultimo Regolamento europeo non si ritrova alcuna legittimazione per negare l’ingresso alle navi soccorritrici nelle acque territoriali, anzi, il richiamo al precedente Regolamento n. 656 del 2014. che sul punto è più esplicito, ne consolida l’obbligatorietà. Nel provvedimento adottato dal ministro dell’interno contro la nave di Lifeline si richiamano poi nozioni di “ordine e sicurezza pubblica” che non sembrano pertinenti al caso del soccorso di naufraghi operato in acque internazionali. Una impostazione allarmistica non suffragata dai fatti, ma che garantisce un sicuro incasso elettorale, a scapito delle persone che per effetto di questa politica sono abbandonate in mare o riprese dai guardiacoste libici.

Il ministro dell’interno cita poi “informazioni acquisite dal Centro Nazionale di Coordinamento del Soccorso Marittimo (MRCC Roma)” secondo cui ” in data odierna, a seguito dell’avvistamento in area SAR libica, da parte di un assetto aereo della missione Eunavformed, di un natante con buona galleggiabilità, le competenti Autorità libiche, nel quadro delle proprie attribuzioni, hanno confermato ad MRCC Roma di impiegare la motovedetta “Obari”, in uscita dal porto di Al Khums, assumendo pertanto il coordinamento dell’evento;

– la nave “Eleonore”, battente bandiera tedesca, anticipando di fatto l’arrivo della motovedetta libica ed operando in totale autonomia, ha raggiunto il suddetto natante (a circa 31 miglia nautiche dalla Libia, 153 da Malta, 176 dalla Tunisia e 144 da Lampedusa) e ha tratto a bordo 101 persone, richiedendo alle Autorità maltesi e italiane l’assegnazione urgente di un POS – place of safety.

A questo punto il ministro dell’interno assegna all’operazione di soccorso il carattere della arbitrarietà e della illegalità, in modo da giustificare poi il successivo divieto nelle acque territoriali che diventa così in modalità ben documentate atto di divieto di soccorso e sbarco in un porto sicuro e misura di respingimento collettivo di persone che rientrano ormai nella giurisdizione italiana per il solo fatto di essere destinatarie di un provvedimento di questa specie, adottato dal ministero dell’interno, con la minaccia di sanzioni gravissime, peraltro contrarie alla Costituzione ed a un minimo senso di umanità, allo scopo di impedire l’ingresso nelle acque territoriali.

Il ministro dell’interno, con la firma di “concerto” dei ministri della difesa e delle infrastrutture, “CONSIDERATO che, ove la nave “Eleonore” indirizzasse in maniera arbitraria la  navigazione verso l’Italia, dalle circostanze dell’intervento e dal complessivo modus operandi della stessa, potrebbe desumersi l’intenzione di porre in essere un’attività volta al preordinato  e sistematico trasferimento illegale di migranti in Italia;” “RITENUTO che tale attività, integrando la fattispecie dello ‘scarico … di persone … in violazione delle leggi … di immigrazione vigenti nello stato costiero’, configurerebbe, se  posta in essere, un’ipotesi di passaggio non inoffensivo ai sensi dell’articolo 19, comma 1,  lettera g), della UNCLOS;” ; CONSIDERATO, altresì, che la medesima attività potrebbe determinare rischi di ingresso  sul territorio nazionale di soggetti coinvolti in attività terroristiche o comunque pericolosi per  l’ordine e la sicurezza pubblica, in quanto le persone tratte a bordo della “Eleonore” sono verosimilmente cittadini stranieri privi di documenti di identità e la cui nazionalità è presunta  sulla base delle rispettive dichiarazioni; RILEVATA la irricevibilità della richiesta di POS – place of safety indirizzata alle Autorità  italiane, dal momento che non sussiste alcun obbligo di corrispondere a richieste di POS  provenienti da assetti navali che abbiano operato al difuori del rispetto delle regole del  coordinamento del soccorso marittimo e il cui complessivo modus operandi, in ragione della  effettuazione di interventi in completa autonomia, configuri l’intenzione di porre in essere  un’attività volta al preordinato e sistematico trasferimento di migranti irregolari sul territorio  nazionale. DISPONE i divieti di ingresso, nonché di transito e sosta della nave “Eleonore” nel mare territoriale nazionale.

In violazione della presunzione di innocenza e senza alcun accertamento della magistratura o delle stesse autorità di polizia nazionale, quanto meno a livello di tentato reato, il ministro dell’interno “suppone” che dal comportamento della nave Eleonore della ONG tedesca Lifeline potrebbe desumersi l’intenzione di porre in essere un’attività volta al preordinato  e sistematico trasferimento illegale di migranti in Italia; e che “tale attività, integrando la fattispecie dello “scarico … di persone … in violazione delle leggi … di immigrazione vigenti nello stato costiero”, configurerebbe, se  posta in essere, un’ipotesi di passaggio non inoffensivo ai sensi dell’articolo 19, comma 1,  lettera g), della UNCLOS;” . Questo il punto cruciale della questione, al di là della minaccia terroristica che non guasta mai, quando mancano basi legali per un provvedimento amministrativo, anche questa del tutto indimostrata, e senza attribuire troppo rilievo alla parificazione tra migranti privi di documenti di identificazione, che magari potrebbero anche chiedere asilo ( e la Convenzione di Ginevra vieta una loro penalizzazione) a soggetti pericolosi per l’ordine e la sicurezza pubblica, anche questa una qualificazione del tutto arbitraria adottata dal ministro dell’interno senza una qualsiasi motivazione di fatto o base normativa che gli permetta tale assimilazione.

Per atto di un ministro dell’interno, controfirmato per atto di concerto dai ministri della difesa e delle infrastrutture (Trenta e Toninelli), ancora in carica per gli “affari correnti”, ma già impegnati per garantirsi un posto nel nuovo governo, il soccorso in mare viene parificato ad una attività illegale e sulla base di questa equiparazione si vieta l’ingresso nelle acque territoriali e si minacciano sanzioni gravissime, peraltro denunciate come contrarie al testo costituzionale dallo stesso Presidente della Repubblica. Si tratta di fatto di un vero e proprio divieto di soccorso, peraltro di contenuto “discriminatorio” perché vale soltanto nel caso dei soccorsi operati dalle ONG, oltre che gravemente lesivo del diritto alla vita che, in base a questo provvedimento, anche quando potrebbero essere soccorse con la massima tempestività, dovrebbero restare abbandonate in mare ad attendere l’arrivo di una motovedetta libica o in alternativa a fare naufragio, magari sotto gli occhi degli operatori umanitari a bordo di una nave delle ONG, in modo da potere contestare loro anche questa gravissima responsabilità. Responsabilità che invece incombe per intero su chi firma i divieti di ingresso nelle acque territoriali italiane con queste motivazioni, su chi appone la propria firma “di concerto” senza rilevarne la manifesta illegittimità e su tutta la catena di comando che vi dà esecuzione. La proibizione dei soccorsi umanitari si realizza attraverso un contenuto dissuasivo ed intimidatorio dei provvedimenti di divieto di ingresso nelle acque territoriali, adottati dal ministero dell’Interno.

Il divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane si completa con un pesante “avvertimento”. Il ministro dell’interno “AVVERTE che, ai sensi dell’articolo 12, comma 6–bis, del decreto legislativo n. 286 del 1998, come modificato dal decreto-legge n. 53 del 2019, l’inosservanza del presente provvedimento, salve le sanzioni penali ove il fatto costituisca reato, comporta l’applicazione al comandante della nave della sanzione amministrativa del pagamento di una somma da € 150.000 a € 1.000.000.

La responsabilità solidale di cui all’art. 6 della legge 24 novembre 1981, n. 689, si estende all’armatore della nave.

E’ sempre disposta la confisca della nave utilizzata per commettere la violazione, procedendosi immediatamente al sequestro cautelare, con la precisazione che, a seguito del provvedimento definitivo di confisca, sono imputabili all’armatore e al proprietario gli oneri di custodia dell’imbarcazione sottoposta a sequestro.”

La nota conclusiva del provvedimento secondo cui lo stesso risulta ricorribile al Tar entro 60 giorni dalla notifica conferma la immediata sottoposizione dei destinatari dell’atto, e di tutte le persone che ne sono “oggetto”, alla giurisdizione italiana, anche se la nave si trova ancora in acque internazionali. E dal momento che il concetto di giurisdizione non appare frazionabile, la stessa giurisdizione potrebbe bene applicarsi ai diritti fondamentali delle persone migranti soccorse in mare, in acque internazionali, mentre rischiavano la vita. Dal momento che, contrariamente a quanto ritenuto nell’atto di divieto emesso da Salvini, la navigabilità di un barcone sovraccarico NON esclude la ricorrenza di una situazione di distress immediato. In questo senso ancora una volta occorre citare il Regolamento Frontex n.656 del 2014, richiamato dal Regolamento n.1624 del 2016 che pure il provvedimento di diniego cita nelle premesse, oltre che i manuali operativi adottati nel Mediterraneo sulla base delle Convenzioni SAR e SOLAS.

Al di là del possibile ricorso al TAR Lazio, per una sospensiva del provvedimento di divieto, rimane questo ennesimo atto arbitrario del ministro dell’interno che ha ben compreso come il suo elettorato lo premi quando compie atti illegittimi in violazione delle Convenzioni internazionali di diritto del mare e in materia di diritti umani. E’ questa la versione italiana del sovranismo, una politica che sta isolando l’Italia a livello internazionale, soprattutto se il capo leghista Salvini continuerà a condizionare le attività dei ministri di un qualsiasi governo. Una convinzione diffusa che è stata alimentata da una impressionante macchina della propaganda salviniana (La Bestia) e che adesso rischia di espandersi ancora una volta se la Lega resterà al governo, o, dopo nuove elezioni dovesse conquistare posizioni di potere esclusivo in una materia, quella sui rifugiati ed i soccorsi in mare, che in uno stato costituzionale non dovrebbe essere rimessa al mutevole indirizzo delle maggioranze parlamentari. I Costituenti ci avevano pensato con l’ampia formulazione dell’art. 10 della Costituzione ma oggi si sta tentando di tutto per svuotare la portata applicativa di quella norma, come si è fatto con l’abolizione della protezione umanitaria. Oggi, come dicono i medici che visitano i migranti fuggiti dalla Libia, abbiamo una nuova Auschwitz a poche centinaia di chilometri dal nostro territorio. Nessuno potrà dire “non sapevo” circa la sorte che attende le persone intercettate in acque internazionali dalla sedicente guardia costiera libica e riportate a terra alla mercé delle milizie.

Rimane sullo sfondo in un momento nel quale si ricercano segni di discontinuità rispetto alle precedenti politiche migratorie, gli accordi con la Libia che dal 2007 ad oggi hanno permesso di fornire ai libici mezzi, assistenza tecnica e finanziaria, formazione, e più di recente coordinamento operativo e copertura politica. Senza la revoca dell‘intesa conclusa il 2 febbraio 2017 tra Italia e Libia, poi ratificata dalla Conferenza di Malta del 3 febbraio dello stesso anno, dalla quale, dopo un anno, derivò, con enormi contraddizioni, la creazione di una zona SAR libica, e senza l’apertura di canali legali di ingresso in Europa con una profonda modifica del Regolamento UE Dublino III, sarà ben difficile che esponenti politici buoni per ogni stagione riescano a contrastare efficacemente il discorso d’odio alimentato da menzogne infamanti sul quale cresce il consenso verso partiti populisti e nazionalisti. Un presidente del consiglio, “informato” degli atti, e dei fatti, sarà in grado di dare qualche segnale di discontinuità? Dopo le parole, con i fatti.

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