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Nuova operazione di Frontex: Themis

In copertina: Un drammatico scatto di Laurin Schimd per SOS Mediterranee del 27 gennaio 2018

di Fulvio Vassallo Paleologo

Un articolo del Corriere della Sera ha anticipato la nuova operazione Themis di Frontex che dovrebbe sostituire la precedente operazione TRITON e limitare il ruolo dei mezzi italiani nelle attività di soccorso, addirittura a 24 miglia a sud di Lampedusa, con la possibilità di sbarcare i naufraghi soccorsi in alto mare ( in acque internazionali) nel “porto più vicino” e non nel “place of safetty” imposto dalle Convenzioni internazionali di Montego Bay (UNCLOS) del 1984 e di Amburgo (SAR) del 1979.
Risalendo alla fonte della notizia le informazioni diffuse dal Corriere appaiono frutto di una visione fortemente influenzata dai rapporti con le polizie e i servizi di informazione. La posizione ufficiale di Frontex è affidata ad un comunicato. Ma un comunicato di polizia non costituisce fonte del diritto. Almeno finora.
FRONTEX LAUNCHING NEW OPERATION IN CENTRAL MED2018-01-31

Quanto alle attività degli agenti Frontex negli Hotspot italiani, attività che si dovrebbero intensificare in base ai nuovi accordi, i risultati della loro presenza sono abbastanza noti e non miglioreranno con le ultime intese annunciate dal Corriere della Sera. Si continuerà certamente a configurare una grave complicità negli abusi e nei trattenimenti prolungati oltre i termini di legge, già condannati dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo nel caso Khlaifia, e denunciati ancora di recente a Lampedusa. Vedremo poi alla fine dell’anno quanto saranno effettivamente incrementati i rimpatri con accompagnamento forzato, missione principale che si vuole oggi assegnare alle centinaia di agenti Frontex dislocati negli Hotspot italiani. Il quadro offerto dei voli di rimpatrio monitorati dal Garante per i diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale è un quadro allarmante per le reiterate violazioni di leggi e regolamenti.

Il Canale di Sicilia e le zone SAR

Non si comprende come, e su quale base legale, si potrebbe porre un limite alle attività dei mezzi navali italiani, alle 24 miglia dalle coste territoriali, che poi sarebbe la cosidetta zona contigua affidata al controllo della Guardia di finanza. Le attività di ricerca e soccorso si devono svolgere nel più breve tempo possibile a qualunque distanza dalla costa, e negli ultimi anni nessuno ha visto un gommone carico di migranti partito dalla Libia ed arrivato a 24 miglia dalle coste italiane, in genere quei gommoni affondano molto prima, se non sono soccorsi dai mezzi delle ONG o intercettati e distrutti dalla cd. guardia costiera libica. E negli ultimi mesi si scontano le gravissime conseguenze derivanti dal ritiro della maggior parte delle ONG dopo la campagna di criminalizzazione lanciata alla fine del 2016 proprio dall’agenzia Frontex, e poi ripresa da una parte delle procure siciliane.
Il mantra del “porto più vicino di sbarco”, già evocato lo scorso anno dal procuratore di Catania Zuccaro, è smentito da quanto si riscontra con una lettura coordinata delle Convenzioni internazionali di diritto del mare nella interpretazione generalmente accolta diffusa dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati..

La responsabilità di procedere allo sbarco incombe sullo stato che assume la responsabilità dell’operazione SAR, una responsabilità che lo stato italiano NON può delegare ad una agenzia di contrasto dell’immigrazione “illegale” come Frontex, a partire dall’ovvia considerazione che Frontex NON ha i mezzi necessari a garantire, neppure nella ultima versione annunciata dell’operazione Themis, attività di ricerca e soccorso nella vastissima zona SAR che toccherebbe alle autorità libiche o a quelle maltesi. Non si può neppure contrabbandare come una modifica della Convenzione (Regolamento) Dublino la possibilità che i migranti vengano fatti sbarcare nel paese di bandiera dell’imbarcazione che soccorre. Lo sbarco deve avvenire in un “place of safety”, determinato dall’autorità SAR che coordina i soccorsi, indipendentemente dalla nazionalità del mezzo soccorritore, nel più breve tempo possibile, e sotto questo profilo sono sempre più vistosi i ritardi imposti dalle autorità italiane allo sbarco dei naufraghi soccorsi dalle ONG e quindi indirizzate dal ministero dell’interno, tramite il comando MRCC, nei nostri porti.
(Research Paper N. 08/2017)

<strong>Nel 2016, stando ad un rapporto della Guardia Costiera Italiana riportato da un articolo del giornale “Il Dubbio”, “le Ong hanno recuperato complessivamente 46.796 migranti, più del doppio di quanti ne avevano soccorsi l’anno precedente (20.063). E nei primi 4 mesi del 2017 hanno salvato 12.646 persone, il 35% del totale. Il resto degli interventi sono stati fatti da mercantili (16%), Guardia Costiera italiana (29%), Marina Militare (4%), Frontex (7%) e Eunavformed (9%). Ma perché le Ong considerano l’Italia come porto sicuro, mente il ministro Marco Minniti vorrebbe che gli immigrati venissero sbarcati in altre nazioni?
In realtà la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), che attribuisce al Paese che coordina le operazioni di soccorso la responsabilità di individuare il porto di sbarco, parla di place of safety, cioè di porto più sicuro e non di quello più vicino. In parole semplici dice che molto più della vicinanza geografica, conta la sicurezza che il luogo può garantire alle persone tratte in salvo, con una particolare attenzione alla condizione giuridica di queste ultime e in particolare alla possibilità che manifestino l’intenzione di richiedere asilo”. Questo il rapporto della Guardia costiera italiana per il 2016.

Nave Dattilo della Guardia Costiera italiana

Forse si vorrebbe ratificare quanto sta avvenendo in questi ultimi mesi, con il ritiro delle navi della Marina e della Guardia costiera italiana in prossimità delle acque territoriali italiane, se non addirittura ferme in porto, quando rimangono solo le navi umanitarie ad affrontare le chiamate di soccorso ricevute e gestite dal Comando centrale della guardia costiera di Roma. Ma se qualcuno vuole davvero limitare la capacità di intervento di mezzi come la nave Dattilo della Guardia costiera, che in passato hanno salvato migliaia di persone, potrebbe trovarsi davanti alle stesse accuse che sono state rivolte agli ufficiali della Guardia costiera e della Marina coinvolti nella strage dei bambini dell’11 novembre del 2013, per la quale è in corso un procedimento penale davanti il Tribunale di Roma, malgrado la richiesta di archiviazione presentata dalla Procura dello stesso Tribunale, e prima ancora dalla Procura di Agrigento.

Non si può certamente pensare che Malta diventi improvvisamente il “porto più vicino” nel quale sbarcare i profughi. Sono note le resistenze dei maltesi ad accettare anche lo sbarco di un solo naufrago, e del resto Malta non dispone certamente dei mezzi per controllare la vastissima zona SAR che le viene ancora assegnata (per rilevanti interessi economici) in base alle Convenzioni internazionali. Chi parla di Malta come luogo di sbarco, o come paese competente per attività SAR in acque prospicienti la Libia, mette in conto centinaia di vittime innocenti naufragate in mare. Non si può neppure affermare che la responsabilità delle autorità maltesi si estenderebbe fino a coprire almeno in parte la zona SAR libica. E’ del resto noto che NON esiste una zona SAR libica, in quanto il governo di Tripoli non ha soddisfatto i requisiti imposti dall’IMO (Organizzazione marittima internazionale) per il riconoscimento delle zone SAR. Solo il governo italiano ed il ministro Minniti continuano ad ipotizzare l’esistenza di una zona SAR libica ed a legittimare l’intervento dei libici in acque internazionali.
Sono questi i casi censiti dalla recente sentenza del Tribunale Permanente dei Popoli che ha emesso un durissimo verdetto di condanna per gli accordi tra autorità italiane ed autorità libiche volti a ridurre le vie di fuga consentite a chi si trova intrappolato in Libia.

Un pattugliatore libico interviene su un barcone gremito di migranti

Chi ha ampiamente dimostrato di non sapere garantire la vita umana in mare, e chi ha assalito imbarcazioni delle ONG mentre erano impegnate in attività di salvataggio, non può essere designato come partner affidabile per operazioni di ricerca e soccorso dalle quali dipende la vita di centinaia di persone. Solo nel mese di gennaio di quest’anno, per il sostanziale disimpegno delle autorità italiane ed europee, sono morte o risultano disperse oltre 200 persone, in maggioranza donne e bambini, un lento genocidio che va avanti tra i proclami securitari delle autorità militari e di polizia, e la tragica indifferenza della popolazione.
Nessun comunicato dei vertici di Frontex, e nessuna intesa bilaterale con il governo italiano possono modificare la portata dei doveri di ricerca e soccorso stabiliti dal Regolamento europeo n.656 del 2014 e dal Regolamento europeo n. 1624 del 2016 che istituisce la Guardia costiera e di frontiera europea, nella quale si è trasfusa l’agenzia Frontex, L’attribuzione di nuovi compiti di sorveglianza e di controllo, anche con riferimento alle attività di contrasto di possibili infiltrazioni terroristiche è dettagliatamente disciplinato dai Regolamenti europei e non può essere inventato da accordi tra il vertice di Frontex ed il governo italiano. L’operazione Eunavfor Med è una operazione finanziata dall’Unione Europea ma con finalità diverse da quelle di Frontex e dovrebbe giustificare i risultati conseguiti, sia in termini di contrasto di quella che viene definita “immigrazione illegale”, che in termini di partecipazione ad attività di soccorso. Gli obblighi di ricerca e soccorso in mare, soprattutto in acque internazionali, sono dettati dalle Convenzioni internazionali del diritto del mare e non sono derogabili da decisioni unilaterali di agenzie europee come Frontex, o da intese tra questa agenzia e qualche governo particolarmente interessato a scaricare su altri le responsabilità delle operazioni di ricerca e soccorso in alto mare.

Soltanto qualche ora dopo l’articolo del Corriere della Sera, frutto probabilmente della “soffiata” dai soliti ambienti bene informati, forse anche da settori determinati dei servizi di informazione, giungei la precisazione di una portavoce di Frontex che i migranti soccorsi in acque internazionali dopo essere partiti dalla Libia non saranno sbarcati in paesi NON europei. Un successivo comunicato affidato alla Reuters fa pulizia della disinformazione diffusa dal Corriere della Sera, ma gli effetti elettorali della sortita giornalistica sono incalcolabili e irreversibili. Gli italioti continueranno a ritenere che le ONG che salvano vite umane in mare, in acque internazionali, ed esigono uno sbarco immediato delle persone soccorse in un porto italiano, siano un attentato alla sicurezza nazionale e alla gestione dei “flussi migratori”.

I migranti non saranno portati in Paesi NON EUROPEI

Molti continueranno a ritenere che sia preferibile che i naufraghi vengano ripresi dai libici e riportati nei luoghi di tortura dai quali sono fuggiti. Il mantra dello sbarco nel “porto più vicino” alimenta una visione discriminatoria e distorcente dei doveri di soccorso ed espone le ONG, che continuano a fare ricerca e soccorso in acque internazionali, ad altri ignobili attacchi da parte dei razzisti da tastiera. Fascisti da tastiera, certo, ma anche riproduttori di un senso comune che cancella la dignità e la stessa vita delle persone, in nome di una astratta difesa dell’identità e dei confini nazionali.

La nave Olympic Commander inserita nel dispositivo di Frontex

Si svela comunque l’ennesima strumentalizzazione mediatica e politica imbastita sulla pelle dei migranti in fuga dalla Libia, proprio negli stessi giorni la “grande stampa” ignora le notizie sugli sbarchi dei superstiti delle ultime stragi, in particolare a Messina, dove è ricomparso un mezzo di Frontex, a Catania ed a Augusta (Siracusa), per i quali sono state impiegate quelle stesse ONG che per dalla fine del 2016 sono oggetto di un violentissimo attacco proprio da parte dei vertici di Frontex,. Quei vertici che nello stesso periodo hanno ritirato quasi tutte le loro navi, trasferendo gli assetti navali residui sul fronte del controllo della rotta ionica dalla Turchia verso la Calabria e la Puglia. Esemplare, alla fine dello scorso anno, il ritiro della nave ammiraglia della operazione Triton, la Olimpic Commander.
In questi ultimi mesi i compiti di ricerca e soccorso più gravosi sono stati assegnati alle poche navi rimaste operative delle ONG, sotto il costante coordinamento della Guardia costiera italiana (Comando centrale di Roma). Continua semmai a destare indignazione, l’attività di intercettazione consentita alla Guardia costiera libica (di Tripoli) in acque internazionali, con assetti sempre più minacciosi nei confronti delle navi umanitarie, e spesso con l’avallo dei comandi della Marina e della guardia costiera italiana. e viene sistematicamente nascosto dalla grande stampa che si esercita sugli scoop sicuritari ad uso e consumo dei politici in campagna elettorale.

L’intervento della Guardia Costiera libica su un gommone di migranti da cui erano scaturiti alcuni incidenti

Nessuno può eludere le proprie responsabilità nelle attività di ricerca e soccorso propinando insostenibili interpretazioni del diritto internazionale del mare. Solo nel mese di gennaio del 2018 sono morte in mare sulla rotta libica oltre duecento persone. Gli interventi delle motovedette libiche hanno rallentato attività di soccorso e prodotto altre vittime. A fronte della situazione in Libia e delle condizioni drammatiche dalle quali continuano a fuggire i migranti intrappolati in Libia occorre una grande missione di soccorso europea, sul modello italiano di Mare Nostrum nel 2014, ed occorre aprire canali legali di ingresso attraverso la concessione di visti per motivi umanitari, unico strumento per sconfiggere davvero i trafficanti e salvaguardare la vita e la dignità delle persone. Non basterà certo qualche operazione di ingresso per motivi umanitari per cancellare le responsabilità di chi ha stretto intese con milizie che torturano e con paesi che non garantiscono le attività di ricerca e soccorso in mare.

Solo nel mese di gennaio del 2018 sono morte in mare sulla rotta libica oltre duecento persone. Gli interventi delle motovedette libiche hanno rallentato attività di soccorso e prodotto altre vittime.

Se poi vogliamo approfondire il ruolo che ha giocato in questi anni l’agenzia europea Frontex, converrà armarsi di pazienza ed andare a ricercare le fonti del diritto che richiamano le modalità operative dell’agenzia e i rapporti periodici di attività che la stessa è tenuta a pubblicare.
Sono anni che i vertici di Frontex vanno all’attacco delle Organizzazioni non governative e dei comandi della Guardia Costiera italiana che antepongono la salvaguardia della vita umana in mare alla difesa dei confini esterni dell’Unione Europea e al contrasto di quella che definiscono soltanto come “immigrazione illegale”. Questi attacchi si erano intensificati dopo le cosidette Primavere arabe e si sono poi attenuati nel 2014, per qualche mese, solo dopo le stragi più terribili che sono costate migliaia di vittime nel Mediterraneo, in particolare sulle rotte che dalla Libia puntano sull’Italia.
Tutti possono ricordare in quale clima l’Italia fu costretta a chiudere l’operazione Mare Nostrum nel 2014, e quante accuse furono rivolte ai vertici militari italiani, “colpevoli” di collusione con i trafficanti per avere salvato troppe vite umane in mare e per avere “contribuito” ad un aumento degli arrivi in Europa di migranti in fuga dalla Libia, quasi tutti migranti in transito, generalmente esposti ad abusi di ogni genere e, nel caso delle donne e dei minori, a stupri sistematici.
Certo l’attenzione di Frontex per i diritti umani non è stata mai una costante delle attività di questa agenzia. Basta ricordare i voli di rimpatrio finanziati da Frontex, a partire dal 17 settembre del 2015, che hanno riportato in Nigeria decine di quelle donne. Con una pesante complicità tra autorità italiane e vertici di Frontex, che ha stipulato da tempo accordi diretti con la Nigeria.

Nave Diciotti della Guardia Costiera italiana

Nessun intervento di ricerca e soccorso può ridurre drasticamente il numero delle vittime quando si consente che in un territorio, come la Libia nord-occidentale, le milizie colluse con i trafficanti riescono a fare partire dallo stesso tratto di costa anche dieci gommoni contemporaneamente, carichi di oltre 2000 persone. Ma la presenza delle navi di soccorso europee, siano esse civili o militari, nelle acque internazionali, a ridosso delle acque territoriali libiche, può incidere sensibilmente sul numero delle vittime, morti e dispersi, che si è costretti a registrare ormai con cadenza quasi giornaliera, nell’indifferenza dei media e dell’opinione pubblica europea.
E’ dimostrato che a partire dal mese di gennaio 2015, dopo la fine dell’operazione Mare Nostrum, quando l’Operazione Triton di Frontex venne limitata alle 35 miglia a sud di Malta e Lampedusa, il numero delle vittime aumentò in modo esponenziale, anche perché, in assenza di altri mezzi di soccorso, le autorità italiane, di fatto responsabili anche delle zone SAR (Search and Rescue) maltese e libica, venivano costrette a chiamare in soccorso navi commerciali, come petroliere e portacontainer del tutto prive dei mezzi (persino dei salvagente o dei gommoni) per operare in sicurezza attività di salvataggio. Immagini agghiaccianti, presto rimosse dalla memoria collettiva, confermano il ribaltamento di gommoni proprio quando la salvezza sembrava ormai raggiunta, sottobordo alle grandi navi commerciali, nella ressa per conquistare un gradino delle esili scalette gettate lungo le fiancate per fare arrampicare i naufraghi. Per i più deboli il destino era segnato.

E infatti la strage più terribile che mai si ricordi in Mediterraneo, il 18 aprile del 2015, fu dovuta alla collisione tra una nave commerciale ed un barcone carico di migranti proprio mette erano in corso attività di soccorso, a ridosso della nave soccorritrice. I tracciati pubblicati nello studio DEATH BY RESCUE di Charles Heller e di Lorenzo Pezzani, dell’Università York e Goldsmith di Londra lo dimostrano in modo inconfutabile.
Dopo quella strage, che rendeva evidente come i mezzi di Frontex non fossero in grado di garantire l’adempimento degli obblighi di salvataggio pure imposti dal Regolamento europeo n.656 del 2014, frutto anche di una controversia tra il Parlamento ed il Consiglio risolta dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con una decisione del Consiglio europeo straordinario del 23 aprile 2015, per due mesi, gli assetti di intervento dell’operazione Frontex-Triton furono estesi fino a 135 miglia a sud di Malta e Lampedusa, dunque fino a circa 40-50 miglia dalla costa libica, da dove provenivano più frequentemente le chiamate di soccorso.
Per i mesi di maggio e giugno del 2015 le stragi nel Mediterraneo centrale improvvisamente cessarono, anche se si trattava di mesi estivi nei quali il numero delle partenze era sempre più elevato. Poi, a cominciare dal mese di agosto nello stesso anno, la maggior parte delle navi fino allora impegnate da Frontex nel Mediterraneo centrale veniva ritirata.

Nel mese di settembre del 2015 veniva lanciata l’Operazione europea EUNAVFOR MED, poi definita come Operazione Sophia, con il compito principale di distruggere le imbarcazioni , evidentemente dopo averle soccorse, in acque internazionali, (fase uno)ed addirittura con il compito, nei piani originari dei vertici europei, di compiere interventi in acque libiche ( fase due) ed in territorio libico alla caccia dei trafficanti (fase tre). Obiettivi evidentemente mancati per il mancato assenso del Consiglio di sicurezza dell’ONU, e dei diversi governi che nel frattempo si erano divisi la Libia. Al posto dei mezzi di Frontex diversi interventi di salvataggio, sempre su coordinamento della Guardia Costiera italiana, venivano operati da navi militari dell’Operazione Sophia, sebbene i suoi compiti non rientrassero dai doveri di salvataggio affermati per le unità Frontex dal Regolamento Europeo n.656 del 2014, richiamato fino all’ultimo Regolamento 1624 del 2016 istitutivo della Guardia Costiera e di Frontiera europea, di fatto un potenziamento di Frontex di cui mantiene la personalità giuridica.
Il 14 settembre 2016 veniva approvato in via definitiva il Regolamento europeo 2016/1624 riguardante la Guardia di frontiera e costiera europea allo scopo di garantire un monitoraggio ed una sorveglianza più efficace alle frontiere esterne e nel Mediterraneo.
Tutto l’impianto della nuova normativa appariva orientato alla predisposizione di interventi rapidi alle frontiere esterne, stabiliti sulla base di programmi di interventi elaborati all’interno dell’agenzia e deliberati dal suo Direttore, e di contrasto dell’immigrazione irregolare, attraverso accordi con le autorità dei paesi di origine o di transito, anche in vista di una possibile collaborazione nelle attività di soccorso in mare e di riammissione o di respingimento verso i porti di partenza. Lo stesso regolamento costituisce un fondamento legislativo essenziale, che finora era mancato, per le politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera che sino a quel momento erano rimaste frutto di accordi di polizia o Memorandum d’intesa (MoU) privi di una base legale, tanto sul piano internazionale che nel diritto interno. Quello che si annuncia oggi dal Corriere della Sera non è certo una novità. Si tratta in sostanza di una espansione delle attività dell’Agenzia Frontex e di una sua maggiore autonomia alle frontiere esterne e nello stabilire rapporti diretti con le autorità di polizia dei paesi terzi, anche in vista di possibili operazioni di rimpatrio o di respingimento.

La parte più consistente del nuovo Regolamento n.1624 del 2016 che istituisce la nuova Guardia di frontiera europea riguarda il rimpatrio (return) dei migranti giunti irregolarmente in Europa o la loro riammissione nei paesi terzi di transito, in virtù dei nuovi accordi che consentono tali operazioni in forza di un consistente contributo economico europeo, sotto forma di cooperazione allo sviluppo. Nella parte in cui si definiscono i compiti della nuova Guardia costiera europea si fa anche un espresso riferimento ai doveri di salvataggio ma non si riscontra una chiara indicazione sulla possibilità (o sul dovere) di sbarco dei naufraghi in un porto sicuro (place of safety). L’art. 4 del nuovo Regolamento, tuttavia, richiama espressamente gli obblighi di ricerca e salvataggio sanciti dal Regolamento 2014/656/UE. Si ribadisce quanto già imposto dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare in base alle quali, una volta che venga dichiarato dalle autorità nazionali un evento SAR, tutti i mezzi civili e militari che si trovano nella zona possono essere chiamate ad intervenire dalle stesse autorità nazionali che coordinano gli interventi di soccorso, in Italia dal Comando centrale del Corpo delle Capitanerie di Porto, per soccorrere i naufraghi.
Il luogo di sbarco, in base alle Convenzioni internazionali, corrisponde al paese nel quale è ubicata l’autorità SAR competente. Per questa ragione l’Italia ha fatto il possibile e l’impossibile per inventare una zona SAR libica e legittimare l’intervento in acque internazionali delle autorità libiche. Con le conseguenze che tutti stiamo verificando.
In base all’art. 34 del Regolamento europeo n. 1624 del 2016 “la guardia di frontiera e costiera europea garantisce la tutela dei diritti fondamentali nell’esecuzione dei suoi compiti a norma del presente regolamento in conformità del pertinente diritto dell’Unione, in particolare la Carta, il diritto internazionale pertinente, compresi la convenzione del 1951 relativa allo status di rifugiati e il suo protocollo del 1967, così come degli obblighi inerenti all’accesso alla protezione internazionale, in particolare il principio di non respingimento”… “Nell’esecuzione dei suoi compiti, la guardia di frontiera e costiera europea provvede affinché nessuno sia sbarcato, obbligato a entrare o condotto in un paese, o altrimenti consegnato o riconsegnato alle autorità dello stesso, in violazione del principio di non respingimento, o in un paese nel quale sussista un rischio di espulsione o di rimpatrio verso un altro paese in violazione di detto principio”.
Il Regolamento sulla Guardia di frontiera e costiera europea n. 1624 del 2016 non menziona espressamente un legame tra la “Guardia costiera e di frontiera europea”, che di fatto è un potenziamento dell’Agenzia Frontex della quale mantiene a personalità giuridica, con l’operazione di contrasto dell’immigrazione irregolare denominata EUNAVFOR MED (Operazione Sophia), che non ha una propria autonoma personalità giuridica ma è soltanto frutto di una decisione del Consiglio UE e della collaborazione di alcuni paesi che hanno messo a disposizione uomini e navi. Una omissione che lascia in ombra, e privi di base legale, gli accordi che nei mesi scorsi i vertici di questa operazione hanno concluso con le autorità libiche che fanno riferimento al Governo di unità nazionale, con sede a Tripoli, ed alle forze navali che questo controlla.

A partire dalla seconda metà del 2015, il venire meno dei mezzi navali e aerei militari dell’Unione Europea corrispondeva all’aumento dell’intervento delle navi civili umanitarie, di SOS Mediterranèe, dell’organizzazione tedesca Sea Watch, di MSF, di MOAS in concorso con la Croce Rossa, poi anche di Save The Children, che sotto il coordinamento della Guardia costiera italiana, ed in concorso con le navi militari italiane della missione Mare Sicuro, salvavano decine di migliaia di persone, altrimenti condannate a morte certa, anche perché i mezzi sui quali venivano imbarcati i migranti erano del tutto inadeguati ad allontanarsi oltre le 20-30 miglia dalla costa libica. Rapporti internazionali provano il costo umano del ritiro dell’operazione Mare Nostrum e dei limiti della missione TRITON di Frontex.
Le alterne vicende dell’Operazione Sophia di EunavforMed sfociavano poi nell’accordo, nel mese di agosto del 2016, con la Guardia costiera che faceva riferimento ai governi delle città di Misurata e Tripoli, e quindi partivano i corsi di formazione ai cadetti libici, che corrispondevano immediatamente ad una rinnovata capacità di ripresa e di riconduzione a terra dei migranti imbarcati sui gommoni, con gravissimi abusi inflitti ai migranti così “soccorsi”, dopo lo sbarco in Libia e l’internamento nei centri di detenzione. Le attività di Frontex nel Mediterraneo centrale venivano progressivamente riducendosi.

Migranti in Libia minacciati con le armi

Aumentava anche esponenzialmente il numero dei cadaveri che si arenavano sulle spiagge libiche o che restavano abbandonati nelle acque territoriali libiche. Di tante stragi avvenute in acque libiche non si sa nulla, sappiamo solo che sulle coste libiche, e tunisine, aumentano le fosse comuni. La estensione delle acque territoriali libiche, dopo il Memorandum d’intesa del 2 febbraio 2017 firmato da Serraj con il governo Gentiloni, è diventata sempre più incerta. A partire da quello stesso periodo infatti le navi umanitarie sono state oggetto di diversi attacchi da parte di unità riconducibili alla sedicente Guardia Costiera libica, al punto che dovevano arretrare in acque internazionali, nelle quali non mancavano neppure incursioni da parte dei libici durante operazioni di soccorso. Era evidente la minima capacità di ricerca e salvataggio della sedicente Guardia costiera libica, dotata di mezzi che non erano adatti ad imbarcare centinaia di migranti, ma apparivano attrezzati per aprire il fuoco ed impedire la prosecuzione della traversata. Come si è verificato in diverse circostanze che i media hanno oscurato.

Infografica raffronto Frontex-Triton

Mentre la situazione sul terreno il Libia sfuggiva a qualsiasi controllo già a partire dal 2016, le condizioni di transito e di sofferenza dei migranti peggioravano giorno dopo giorno, proprio alla fine del primo ciclo di formazione della cosidetta Guardia Costiera libica a bordo delle navi dell’operazione Sophia. Mentre sparivano tutte le navi di Frontex, o si ritiravano a sud di Malta, con interventi SAR sempre più sporadici, partiva un attacco violento contro gli operatori umanitari. Il 29 novembre del 2016, il rappresentante ONU per la Libia Martin Kobler, definiva la presenza delle navi delle ONG internazionali come un fattore di attrazione (pull factor), subito spalleggiato dai vertici europei come il Commissario all’immigrazione, il greco Avramopoulos.
Quindi partiva l’attacco più velenoso, diretto proprio contro i comandanti e gli equipaggi delle navi umanitarie che, dopo essere stati esposti al piombo dei libici, venivano direttamente accusati di collusioni con i trafficanti. Il 4 dicembre 2016 le notizie venivano diffuse da una fondazione olandese, GEFIRA, da un paese nel quale stavano prevalendo posizioni di sbarramento, se non di aperta xenofobia, nei confronti dei migranti in fuga verso l’Unione Europea.
Il 7 dicembre 2016, questi attacchi contro le ONG “colpevoli” di “collusione” con i trafficanti libici in attività di “contrabbando” di esseri umani, venivano ripresi da ambienti che sembrerebbero riconducibili alla destra rosso-bruna europea, e con vasti riferimenti ai servizi segreti, per il tipo di informazioni delle quali evidentemente questi siti di informazione potevano disporre. Infine partiva l’attacco frontale dei vertici di Frontex, proprio alla vigilia del Consiglio Europeo del 15 dicembre che avrebbe dovuto ridefinire la politica europea in materia di contrasto dell’immigrazione e distribuire le risorse necessarie, sempre più ingenti per esternalizzare i controlli di frontiera e coinvolgere, con i cd. Migration Compact, i paesi di origine e di transito.

Un salvataggio in mare di migranti

Sono ormai note le ragioni degli attacchi alle ONG, la pochezza di risvolti delle attività giudiziarie, gli effetti devastanti della campagna di odio che è stata cavalcata da politici di partiti diversi e ripresa anche da un voto unanime della Commissione difesa del Senato. Meglio tacere sulle indagini giudiziarie, in attesa che giungano ad acquisizioni certe. Di sicuro il rilievo mediatico attribuito alle ONG come taxi del mare appare del tutto sproporzionato. La riduzione della presenza delle navi umanitarie nelle acque internazionali ha aumentato il numero delle vittime.
Cosa hanno fatto davvero le unità di Frontex – Triton nel corso del 2017? Come sono stati impiegati i fondi che sono stati aumentati dopo le stragi del 2015? Come si stanno dispiegando i mezzi della nuova Guardia Costiera e Polizia di frontiera europea prevista dal nuovo Regolamento 1624 del 2016, che alcuni definiscono già come una Frontex Plus, di cui mantiene la personalità giuridica?
Perché la Guardia Costiera italiana che è indiretta destinataria degli attacchi di Frontex alle ONG, non rende noti i tracciati delle operazioni di Search and Rescue che documentano il disimpegno progressivo dei mezzi europei? In cosa consistono davvero le attività di formazione della Guardia costiera libica condotte da Frontex a bordo delle navi dell’Operazione Sophia di Eunavfor Med e quali risvolti operativi hanno già avuto?
Invitiamo i parlamentari europei ad avviare attività ispettive per verificare come vengono spese le ingenti risorse stanziate per queste operazioni e soprattutto per verificare quanto siano rispettate le regole internazionali ed europee che impongono il salvataggio delle vite umane in mare e l’assoluto rispetto del principio di non refoulement. Un principio troppo spesso affermato a parole, ma poi contraddetto da Memorandum d’intesa (MoU) che delegano ad autorità di paesi che non rispettano i diritti umani compiti di ricerca e salvataggio che si traducono in altri abusi ed in altra detenzione arbitraria.
Oltre ad attaccare gli operatori umanitari, ed indirettamente la Guardia Costiera italiana, che hanno salvato decine di migliaia di vite umane, Frontex renda conto dell’adempimento dei doveri di soccorso previsti dalle Convenzioni internazionali e degli impegni che derivano dai Regolamenti Europei e dalle Decisioni del Consiglio e del Parlamento Europeo, da ultimo ribaditi nel Regolamento che istituisce la nuova Guardia Costiera e di frontiera europea. Non sono solo le ONG sotto attacco a chiedere chiarezza. Accanto alle ONG, i cittadini europei solidali sono pronti a contrastare giorno per giorno l’intensificarsi della guerra alle migrazioni e la criminalizzazione che si sta rivolgendo nei confronti di chiunque si opponga alle politiche di morte adottate a Bruxelles ed a Varsavia.

Articolo di Fulvio Vassallo Paleologo per ADIF – Associazione Diritti e Frontiere reperibile su www.a-dif.org

(Contenuto concesso dall’autore a Mediterraneo Cronaca)

Associazione Diritti e Frontiere:

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