Grateful Dead: the first show

Rubrica culturale di Roberto Greco

Il Fillmore non ha una vera e propria entrata posteriore. C’è una piccola porta che in verità serviva durante il periodo del proibizionismo. Di fianco all’ingresso principale, che da su Geary Boulevard, c’è un cancello in ferro. È da qua che si effettua il carico e lo scarico degli strumenti e dell’impianto che si usano durante i concerti. Il vecchio Peterbilt 359 accende il motore. Gli sportelli posteriori si sono chiusi. Bear viene verso di me. Mi guarda negli occhi. “Una merda, vero?”. Guardo l’orologio all’angolo con Fillmore Street segna le 4. Tra un po’ albeggia. Mi siedo sul gradino e tiro fuori la busta del tabacco. Il camion parte, lasciando alle sue spalle un denso fumo nero e puzzolente. Bear si siede di fianco a me. Prende dal taschino del suo gilet un grosso fiore di marjuana e me lo passa. Rollo una canna. La accendo. “Domani ascolto la registrazione di stasera. Ci saranno anche i ragazzi, vieni?” Rispondo positivamente muovendo il capo, mentre gli passo la canna. Com’ero finito sul marciapiede di Geary Boulevard quella mattina?

Sono un roadie. Seguo i musicisti durante i concerti, monto i loro strumenti, li mantengo accordati e puliti. Gli garantisco che quando saliranno sul palco dovranno occuparsi solo di suonare. E se tra un brano e l’altro è necessario, ad esempio, cambiare chitarra, il musicista deve semplicemente sfilarsi quella che indossa e allungarla nel vuoto. Il “suo“ roadie la prenderà e gli consegnerà quella da utilizzare perfettamente accordata. Si crea un rapporto particolare, tra il musicista e il “suo” roadie, che molto spesso è anch’egli un musicista, più giovane, con poca esperienza musicale rispetto all’artista al quale offre i suoi servizi.
Ero scarso, con la chitarra. Uno zappatore. Però la conoscevo bene dal punto di vista tecnico. Cominciai a occuparmi di liuteria elettrica nel 1961, quando la Gibson, importante produttore di chitarre, mise sul mercato il suo modello SG. Avevo amato sia la Les Paul sia la Explorer, ma per la SG fu amore a prima vista. Aprii così, a Oakland, dove vivevo, un piccolo laboratorio in cui modificavo le chitarre. Un giorno entro dalla porta un chitarrista, capelli lunghi, barba, insomma, il solito look di tutti i chitarristi di quel periodo. La cosa non comune era la sua chitarra: una Danelectro, non la solita Stratocaster o, magari, una Les Paul. Facemmo subito amicizia e così, quando Jerry e la band in cui suonava si spostarono in California, io li segui. Non mi garantivano certo lavoro tutto l’anno, ma cominciai a entrare nel giro di altri musicisti, soprattutto quando i “Mother McCree’s Uptown Jug Champion”, questo era l’impronunciabile nome della band, si trasferirono a San Francisco con il nome di “Grateful Dead”. Arrivammo nel pieno della controcultura hippie. Quando RG Davis, decise di organizzare un concerto al Fillmore, non potè ignorare i “Dead” sia per lo straordinario livello tecnico di tutti i membri del gruppo, sia per lo stile con cui si presentarono, che combinava elementi di diversi sottogeneri del rock con il blues, il jazz, il bluegrass. Provammo tre giorni nella cantina di un’amica di Pigpen, il tastierista, per prepararci allo show. Ieri pomeriggio, quando il Ford Transit rosso comprato da Bear si fermò di fronte al cancello del Fillmore per scaricare la batteria di Bill, iniziò la nostra avventura. Non era il primo concerto, per nessuno, ma l’emozione era forte. I “Dead” erano gli unici che avevano al seguito un roadie, io, e un fonico, Augustus Owsley Stanley III, per noi Bear. Le prove erano già iniziate e sul palco c’erano i Jefferson Airplanes. Avevano firmato, da poco, un contratto discografico con la RAC Victor ed erano i guest della serata. Conoscevo Paul Kantner, il chitarrista, con il quale avevo lavorato lo scorso anno. Gli feci un gesto con il capo. Lui mi vide, sorrise e alzò il volume della chitarra. Grace, la cantante, si voltò verso lui e con la mano si segnò il collo da destra a sinistra. Paul si mise a ridere, mi indicò e abbassò la chitarra. Grace si voltò verso di me e mi tese l’indice medio della sua mano destra.

Grateful Dead – Capitol Theatre, Passaic, NJ – 06/19/1976 – courtesy of Music Valut

Poi lo show. Le luci del Fillmore si spensero completamente, una dopo l’altra le band cominciarono a salire sul palco mentre la voce di Davis le annunciava: The Gentlemen’s Band, The Mistery Trend, John Hard Quintet, The Great Society. Poi la voce di Davis annunciò i “Dead”: “and now, ladies and gentlemen, the band you were waiting for … the Grateful Dead”. Sulla scaletta, uno dopo l’altro, salirono Jerry Garcia, Bob Weir, Phil Lesh, Ron “Pigpen” Mackernan e Bill Kreutzmann. La Danelectro di Jerry era pronta al suo a posto, perfettamente accordata, così come la chitarra di Bob e il basso di Phil. Ieri sera i Grateful Dead si sono presentati al pubblico di San Francisco.

Non hanno ancora un album pronto. Ma la gente vuole la loro musica e li vuole sentire suonare. Bear mi passa un altro fiore di marjuana mentre Daniel, il tuttofare del Fillmore, ci raggiunge portando tre birre, dopo essersi chiuso alle spalle il cancello di ferro del locale. Rollo un’altra canna. “Perché hai detto che è andata di merda? I ragazzi mi sono sembrati contenti, la gente pure.” L’orologio segna le cinque e mezza. Il nuovo giorno prende oramai il sopravvento su quello vecchio. Ieri è stata una giornata importante. Importante per i ragazzi, per Bear e aper me, ma anche per la musica. Era il 10 dicembre 1985, il giorno in cui i Grateful Dead suonarono insieme per la prima volta con il nuovo nome propiziatorio. Bear prende dalla borsa un taccuino su cui comincia a disegnare un palcoscenico. La posizione dei musicisti. Accendo la canna e bevo un lungo sorso di birra. “Un muro, capisci? Io sto pensando a un muro”. Guardo Bear. Daniel si avvicina e sbircia il disegno di Bear. “Un muro di casse, intendi?”. Bear sfoglia indietro di qualche pagina il suo taccuino “Questo, intendo…”. Bear mi guarda sorridendo, ma questa è un’altra storia.

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