Festival della Fotografia Etica: sguardi diversi sul mondo

Rubrica culturale di Roberto Greco

Tutto iniziò quando cambiai barbiere. Avevo circa dodici anni. Avevo cominciato a frequentare un territorio in cui ero stato innestato dal trasferimento di mio padre, che si trovava a lavorare una ventina di chilometri da Bologna, la nostra città, e con l’obbligo di residenza on-site. Approdai nella bottega di questo barbiere, un piccolo e anonimo barbiere di provincia. Ricordo i barbieri di città: calendarietti con le donne in costume da bagno, tavolino con le riviste vietate ai minori, mentre questo, pur odorando dell’acqua di colonia cheap di voga in quel periodo, aveva bellissime fotografie, sia a colori sia in bianco e nero, alle pareti. Tutte foto di matrimoni. Alcune con gli effetti speciali ottici che si usavano allora, quando per fotografare era necessario inserire un rullo di pellicola all’interno della macchina fotografica. In quel periodo della mia vita, era mia madre che decideva quando andare dal barbiere, e ciò succedeva circa ogni tre settimane. Sarà per questo che, oggi, ho un rapporto quasi semestrale con i barbieri. Decisi che Renzo, questo era il nome del barbiere, sarebbe stato il barbiere. Entrammo in confidenza. In quel periodo il suo corredo faceva brillare gli occhi a chiunque, sia fotoamatori sia professionisti: alcune Rolleiflex biottica, diversi corpi Hasselblad, ottiche, magazzini. Cominciammo a parlare di fotografia e iniziammo a frequentarci non solo quando dovevo tagliare i capelli. Mi diede una Rolleiflex in mano e mi disse “Prova…”. Nel giro di breve tempo mi fece scattare con le sue Hasselblad e poi mi consigliò di acquistare un piccolo corredo 35 mm. Renzo aveva una Nikon F e una Nikkormat Ft. Non le usava molto. Le aveva perché avrebbe voluto integrare il servizio classico con qualcosa di più dinamico, grazie al piccolo formato delle camere 35 mm. E così fu. Acquistai una Nikon FM. Le prime ottiche che usai erano di Renzo. Caricavo la macchina con un rullo bianco e nero a 400 ASA e scattavo. Con parsimonia, attendendo l’attimo. Massimo tre rulli a matrimonio, mi aveva detto Renzo. Circa cento scatti. Obiettivo Settanta fotografie buone, per una selezione definitiva di cinquanta. Il mio maestro era molto severo ma, soprattutto a quei tempi, scattare molto voleva anche dire sviluppare e stampare, anche se solo i provini, molto. E ciò era antieconomico. Da allora, molte macchine fotografiche sono passate per le mie mani, sono rimasto fedele al brand della mia prima macchina fotografica e conservo ancora alcune ottiche che Renzo, nel tempo, mi regalò. Mi ha insegnato molto, non solo di fotografia. In lui c’era un’arte Zen nella gestione del proprio lavoro, fatta di ispirazione e pensiero. Riservato, divideva la sua vita tra la bottega di barbiere e il soggiorno di casa sua, che era il suo studio/laboratorio. Usciva poco di casa, se non per i servizi fotografici. Non mangiava mai ai matrimoni. Gironzolava con la sua Nikon F al collo e, ogni tanto, la alzava e scattava. Ma non sempre. Mi ha insegnato ad abbassare l’obiettivo verso il basso e a smettere di essere ‘documentarista’ a tutti costi. Guardando alcuni degli scatti vincitori del “Festival della Fotografia Etica”, mi è venuta in mente la fotografia di Renzo, timida e a volte ingenua, ma con forte carattere documentario, in grado di fermare un attimo memorabile con il massimo dell’espressività artistica. L’ottava edizione, che si svolge, come di consuetudine, a Lodi, ha aperto battenti il 7 ottobre scorso e li terrà aperti sino al 29 ottobre. 34 mostre, 20 fotografi di livello internazionale presenti, oltre 50 tra incontri e seminari, 772 candidature, 51 paesi di provenienza degli autori, questi sono i numeri del più importante appuntamento di fotografia etica.


Il World Report Award, composto dalle cinque categorie del festival, quest’anno è stato assegnato: per la sezione Master, Daniel Berehulak con il reportage They’re Slaughtering Us Like Animals, potentissimo portfolio realizzato nelle Filippine del Presidente Duterte e la sua lotta spietata contro il traffico di droga; per la sezione Spotlight, Giorgio Bianchi e la sua Donbass Story – Spartaco and Liza, tra Italia e Ucraina; per la terza sezione Short, Emanuele Satolli con The Battle For Mosul; per European, il francese Romain Laurendeau con Derby, in Algeria dove una partita di calcio assume una dimensione esistenziale incommensurabile; infine l’ultima categoria Single Shot con i tre vincitori Alberto Campi, Peter Bauza e Alessandro Rota.

Ma il festival non è solo una mostra di fotografia. È uno spazio urbano in cui si dibattono tematiche riguardanti l’impegno nel sociale. Uno spazio che da voce ai fotografi che potranno aggiungere, non perché necessari, la loro voce e le proprie emozioni personali, ai loro reportage, potendo raccontare le difficoltà realizzative e il rapporto con il contesto, spesso ostico.
Grande sponsor del progetto inedito, per opera di Alessio Cupelli, è FujiFilm Italia, che da anni è al fianco del festival. Il progetto presentato è Nadab, un progetto che racconta la diaspora dei migranti. Nadad, che in arabo significa cicatrice, simboleggia le cicatrici lasciate nell’anima e nel corpo di chi è costretto a lasciare il proprio paese di provenienza.
Si prospetta quindi un’edizione decisamente “potente” che oltre per la qualità delle mostre si connoterà per il livello degli incontri, workshop, letture portfolio, presentazioni di libri e per le visite guidate proposte dalla attivissima Sezione Educazione. Si tratta perciò di quattro settimane densissime di proposte, di grande fotografia e soprattutto di straordinaria umanità. A Lodi fino al 29 ottobre. Ulteriori info sul programma:
www.festivaldellafotografiaetica.it

Roberto Greco

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