Operatori sanitari e Covid-19: Vite sospese

di Franca Regina Parizzi

Gli operatori sanitari sono le persone più a rischio di contagio e di diffusione del coronavirus: al momento sono 3.500 quelli ammalati, il che significa che 1 su 10 malati di Covid-19 è un operatore sanitario. Operatori sanitari che includono non soltanto il personale degli ospedali (medici, infermieri, tecnici, addetti alle pulizie, ecc.), ma anche i medici del territorio. Alcuni di loro sono morti per polmonite interstiziale da coronavirus.

In Cina gli operatori sanitari infettati sono stati circa 2.000. Qual è ad oggi la risposta del nostro Governo a questa che possiamo definire una vera e propria carneficina? Limitare l’esecuzione del tampone solo ai soggetti sintomatici, operatori sanitari inclusi.

Tutti abbiamo capito che di coronavirus ci si può infettare e non ammalarsi, oppure ammalarsi in forma lieve, paucisintomatica (anche un semplice raffreddore). Quello che non sappiamo (ma anche i non addetti ai lavori possono sospettarlo fortemente) è in che misura i soggetti infetti ma asintomatici o paucisintomatici possono contagiare altre persone. Tuttavia l’assessore alla salute della Regione Lombardia ha dichiarato a Rai3 (Carta Bianca) il 17 marzo che questi soggetti non rappresentano una fonte di contagio.

Mi domando: sulla base di quali certezze scientifiche? Perché prove scientifiche sull’importanza dei soggetti infetti da coronavirus asintomatici come amplificatori del contagio ci sono. Recentemente la rivista Science ha pubblicato uno studio condotto da un team internazionale che dimostra come il principale veicolo di contagio del coronavirus in Cina nella prima ondata dell’epidemia fosse rappresentato proprio dai soggetti asintomatici o con sintomi lievi non sottoposti al test, responsabili di aver contagiato circa 8 persone su 10 che hanno sviluppato la malattia.

Un’altra autorevole rivista scientifica (Lancet) il 3 marzo ha pubblicato un articolo che dimostra come il nuovo coronavirus in Cina sia stato trasmesso agli operatori sanitari anche da soggetti asintomatici o paucisintomatici e sottolinea l’importanza delle misure di protezione (DPI: dispositivi di protezione individuale) per il personale sanitario.

Nella precedente epidemia di SARS (la sigla sta per “severe acute respiratory syndrome”, grave sindrome respiratoria acuta) del 2002-2003, dovuta sempre a un coronavirus, ma con una minore contagiosità e una maggiore letalità rispetto al coronavirus attuale, su 8098 infettati 2107 erano operatori sanitari (1 su 5) e 1 su 10 di questi sono morti.

Il portavoce dell’Istituto Superiore di Sanità D’Ancona (epidemiologo) in una recente conferenza stampa con la Protezione Civile, a proposito dell’alta percentuale di medici contagiati, ha pubblicamente espresso il dubbio che si siano contagiati fuori dall’ospedale e non in ospedale ed è stato subito smentito dalla Protezione Civile, consapevole di quanti, quali e a chi sono stati consegnati i DPI. Perché questi DPI (cioè mascherine FFP2 e FFP3, occhiali, guanti e camici idrorepellenti) distribuiti fino ad oggi sono inadeguati o insufficienti.

Nel nostro Paese sono stati effettuati tamponi a tappeto solo in un primo tempo e in un focolaio limitato come quello di Vo Euganeo, per poi ridurli drasticamente solo ai casi sintomatici. Ma l’esperienza di Vo Euganeo ha dimostrato come più della metà dei soggetti positivi al tampone per coronavirus fossero del tutto asintomatici. Portatori sani dunque. Ma ogni medico sa che i portatori sani rappresentano una formidabile fonte di contagio per qualunque infezione.

Perché allora non ci interessa sapere chi e quanti sono? Proprio per il coronavirus poi, che è responsabile di una vera e propria strage. I portatori sani di coronavirus hanno probabilmente una bassa carica virale (in termini più comprensibili si può dire che ospitano nelle loro alte vie respiratorie – naso, gola – una quantità minore di virus rispetto ai malati), ma è dimostrato che trasmettono l’infezione.

Uno studio statistico di comparazione con l’esperienza cinese pubblicato dal GIMBE (Gruppo Italiano per la Medicina Basata sulle Evidenze) stima che in Italia ci siano circa 70.000 soggetti asintomatici o con sintomi lievi.

Il tampone rinofaringeo rappresenta al momento l’unico test affidabile utilizzato nel nostro Paese.

L’esecuzione a tappeto del tampone rinofaringeo non è tuttavia possibile, per ovvi problemi di  tempi, di personale e di attrezzature. Il tempo minimo necessario per la risposta è di 3 ore e mezza- 4 ore e mezza, ma nella realtà i tempi sono molto più lunghi per la grande quantità di campioni da esaminare, per il personale e gli strumenti disponibili. 

Eseguire un tampone rinofaringeo di massa sarebbe inoltre inutile, poiché un risultato positivo non consente di dire che il soggetto è immune e un risultato negativo significa che quella persona in quel momento non è infetta, ma può sempre infettarsi in un momento successivo.

Esistono test rapidi, alcuni basati sulla ricerca del virus nel tampone rinofaringeo eseguito direttamente alla persona al volante dell’automobile (per evitare assembramenti), altri basati sulla ricerca degli anticorpi nel sangue (prelevato con una semplice puntura del polpastrello). Questi test, utilizzati con successo nella Corea del Sud e oggi ordinati da alcune Regioni del nostro Paese, trovano impiego soprattutto come screening di massa. Perché uno screening di massa è fondamentale per definire e mettere in atto strategie efficaci per interrompere la catena di trasmissione del virus. Questi test consentono di individuare in tempi molto brevi le persone infette ma asintomatiche o con sintomi lievi, tra gli operatori sanitari e nelle categorie a rischio (contatti di soggetti positivi, forze dell’ordine, dipendenti di pubblici uffici, ecc.), e sono estremamente utili anche per il triage nelle strutture di Pronto Soccorso.

Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) raccomanda l’esecuzione di test a tutti i contatti di casi sospetti o accertati. Sono inclusi, evidentemente, tutti gli operatori sanitari che hanno avuto contatti con pazienti affetti da Covid-19, o con casi sospetti, e non solo gli operatori sanitari sintomatici.

Nel recente Decreto Legge del 9 marzo (art. 7) si legge che “i medici a contatto stretto con pazienti contagiati non possono essere messi in quarantena se non sintomatici”.

Dunque ad oggi la regola è: nessun tampone e nessuna quarantena per gli operatori sanitari a contatto con malati di Covid-19 se asintomatici. Perché? Perché verrebbe a sguarnirsi l’assistenza sanitaria in un momento di estrema criticità, naturalmente. Perché è vero che sono state fatte nuove assunzioni a tappeto, ma si tratta di personale in gran parte evidentemente inesperto (neolaureati in Medicina o Scienze Infermieristiche). Non si sono fatte assunzioni utilizzando le graduatorie di  concorsi precedenti. Si sono fatti bandi ad hoc per liberi professionisti a partita IVA, privi di ogni tutela in caso di malattia. Contratti che prevedono la fine della collaborazione alla fine dell’emergenza.

In una situazione che possiamo definire come Medicina delle catastrofi, in cui c’è un’estrema necessità di macchinari per la ventilazione polmonare, in cui si convertono sempre più reparti di degenza all’emergenza coronavirus, si moltiplicano i letti di Terapia intensiva e subintensiva, non si dovrebbe tagliare e speculare proprio sulle risorse umane.

Ormai ci sono più casi e più morti nel resto del mondo che in Cina. Il Direttore Generale dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus il 16 marzo ha sottolineato come alla rapida adozione delle misure di distanziamento sociale (dalla chiusura delle scuole e delle università e l’annullamento degli eventi fino alle drastiche misure adottate dal Presidente del Consiglio italiano il 12 marzo) non si siano accompagnate altre misure – altrettanto necessarie e urgenti – quali l’estensione di esecuzione dei test, l’isolamento dei soggetti positivi e il tracciamento e l’isolamento dei contatti. Misure che, insieme al distanziamento sociale, rappresentano i cardini della risposta al coronavirus, come dimostrato dall’esperienza della Cina e della Corea del Sud.

Le misure di distanziamento sociale aiutano a ridurre la trasmissione dell’infezione, sì da consentire al Servizio Sanitario Nazionale di far fronte all’emergenza, ma da sole non sono sufficienti a estinguere la pandemia. Pandemia la cui durata non è prevedibile, a causa della diffusione asincrona del coronavirus nei vari Paesi e dell’assenza di un piano comune per fronteggiarla a livello non solo europeo, ma mondiale.

L’Italia è stata il primo Paese europeo colpito dal coronavirus con indici di gravità (numero di ricoveri) e di letalità elevati, molto probabilmente sovrastimati proprio perché i test sono stati limitati ai soggetti sintomatici.

E’ necessario testare, testare e isolare” – ribadisce a gran voce il Direttore dell’OMS – “senza queste misure è impensabile riuscire a rompere le catene di trasmissione”.  Nel nostro Paese l’appello dell’OMS è stato raccolto al momento solo da alcune Regioni. In questa situazione di grave ed estrema confusione e preoccupazione, in cui siamo bombardati di informazioni basate nella stragrande maggioranza su opinioni e non su dati scientifici, una cosa deve essere chiara: i soggetti positivi al coronavirus sono tanti, molti sono asintomatici, ma rappresentano importanti veicoli e amplificatori del contagio.

Uno studio,  pubblicato di recente su un’autorevole rivista scientifica (JAMA), mette in evidenza come il 41% dei pazienti ricoverati per coronavirus in un ospedale di Wuhan si siano infettati in ospedale: il 29% erano operatori sanitari e il 12% pazienti ricoverati per altre patologie.

Gli ospedali e gli ambulatori medici rappresentano dunque luoghi pericolosi e gli operatori sanitari che vi lavorano non soltanto sono i soggetti a maggior rischio di ammalarsi, ma rischiano anche di contagiare i propri familiari, i colleghi e i pazienti, contravvenendo – non per colpa – a uno dei principi fondamentali del giuramento di Ippocrate: “primum non nocere” (per prima cosa, non nuocere).

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Nata a Milano il 15.12.1947, ha conseguito la laurea in Medicina e Chirurgia nel 1972 presso l’Università degli Studi di Milano con voti 110/110 e lode. Nel 1974 è stata assunta presso l’Ospedale San Gerardo di Monza, inizialmente come Assistente nel Reparto di Malattie Infettive e successivamente, dal 1980, nel Reparto di Pediatria, divenuto nel 1983 sede della Clinica Pediatrica dell’Università degli Studi di Milano Bicocca, ove ha ricoperto successivamente (dal 1988) il ruolo di Aiuto Corresponsabile Ospedaliero, e, dal 2000, di Dirigente Medico con incarico di Alta Specializzazione. Ha conseguito la Specializzazione in Malattie Infettive e successivamente in Chemioterapia, entrambe presso l’Università degli Studi di Milano. Nel 1977 e 1978 è stata responsabile del Reparto di Pediatria presso l’Hôpital Général de Kamsar (République de Guinée – Afrique de l’Ouest) nell’ambito della Cooperazione Tecnica con i Paesi in via di sviluppo del Ministero degli Affari Esteri italiano. Autrice di numerose pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali e internazionali e relatrice in diversi convegni (nazionali e internazionali). Dal 2010 si è trasferita da Monza a Lampedusa, isola alla quale è profondamente legata, dove esercita tuttora la sua attività come pediatra.

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