Colpita la mafia dei Nebrodi, 94 arresti

Core business dei clan mafiosi dei Nebrodi era l'acquisizione di terreni per accedere ad erogazioni di contributi comunitari grazie alla complicità di colletti bianchi che istruivano la procedura per le truffe. L'operazione ha condotto all'arresto di 94 persone di cui 48 in carcere e 46 ai domiciliari - VIDEO

Un’operazione enorme che ha visto un dispiegamento di forze notevole per la fase odierna, degli arresti, ed un dispendio di lavoro altrettanto sostenuto per le indagini che hanno condotto la Procura di Messina, Direzione Distrettuale Antimafia (DDA), a chiudere la sessione investigativa con la richiesta di misure cautelari per 94 persone. Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Messina ha accolto la richiesta della DDA e disposto il carcere per 48 dei 94 indagati e gli arresti domiciliari per i restanti 46. L’operazione, definita con il nome convenzionale di “Operazione Nebrodi”, ha raggiunto un punto di svolta con la restrizione della libertà personale dei soggetti accusati di reati a vario titolo di associazione mafiosa, concorso esterno in associazione mafiosa, associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, estorsione, trasferimento fraudolento di valori, falso ideologico commesso da pubblico ufficiale e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche.

L’arresto dei destinatari delle misure cautelari consentirà adesso all’autorità inquirente di approfondire ulteriormente le indagini e di accedere a riscontri degli stessi indagati, posti adesso in condizione di possibili reciproche accuse. Tutto ancora da vagliare fino in fondo, ma con una “fase due” che adesso parte dalla disponibilità dell’Autorità Giudiziaria di 94 accusato, alcuni dei quali incastrati da intercettazioni audio-video ambientali, e di 151 imprese sequestrate insieme a conti correnti e rapporti finanziari. Tra i destinatari del provvedimento, oltre ai vertici ed agli affiliati dell’associazione a delinquere, anche imprenditori e pubblici amministratori. Tutti in qualche modo coinvolti, secondo le accuse, in una spartizione virtuale del territorio operata dall’organizzazione mafiosa ai fini della commissione di un elevatissimo numero di truffe finalizzate ad ottenere ingenti contributi erogati dalla Comunità Europea sui fondi agricoli.

Indagini parallele

I dettagli dell’ingente operazione sono stati resi noti questa mattina in conferenza stampa a Messina con la partecipazione del procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Rao. Agli indagati sono contestati, a vario titolo, i reati di associazione per delinquere di stampo mafioso, danneggiamento seguito da incendio, uso di sigilli e strumenti contraffatti, falsità materiale commessa da pubblico ufficiale in atto pubblico, falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale in atto pubblico, trasferimento fraudolento di valori, estorsione, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche e impiego di denaro, beni ed utilità di provenienza illecita. Due diverse le deleghe di indagini affidate dalla DDA di Messina, una al Gruppo Investigazioni Criminalità Organizzata della Guardia di Finanza di Messina (G.I.C.O.) e l’altra ai Carabinieri del Raggruppamento Operativo Speciale (R.O.S.) del Comando Provinciale di Messina e del Comando Tutela Agroalimentare, entrambi relativi al territorio dei Nebrodi.

Un territorio ermetico ed ostile

L’indagine delegata al ROS ha consentito di ricostruire l’attuale assetto e operatività del clan dei “Batanesi”, gruppo mafioso operante nella zona di Tortorici e in gran parte del territorio della provincia di Messina diretto da Sebastiano Bontempo (nato nel 1969), l’omonimo Sebastiano Bontempo (nato nel 1972), Sebastiano Mica Conti e Vincenzo Giordano Galati. L’altro filone d’indagine, quello della Guardia di Finanza, si è concentrato su una costola del clan detto dei “Bontempo-Scavo”, capeggiata da Aurelio Salvatore Faranda. Dopo i precedenti giudiziari derivanti da diverse vicende processuali, nel corso del tempo Faranda ha esteso il centro dei propri interessi fino all’area calatina, tra Catania e l’hinterland di Caltagirone. Le indagini sono state delicate e difficili a causa delle caratteristiche del territorio in cui gli investigatori operavano. Un territorio che gli stessi inquirenti hanno definito “ermetico ed ostile”.

La forza dei clan

Quella tracciata dall’indagine è un’associazione mafiosa estremamente attiva, osservante delle regole e dei canoni dell’ortodossia mafiosa, in posizione egemone sui Nebrodi della provincia di Messina ma capace, al tempo stesso, di rapportarsi – nel corso di riunioni tra gli affiliati – con le articolazioni territoriali mafiose di Catania, Enna e finanche del mandamento delle Madonie di Cosa Nostra palermitana. Nel corso della lunga attività investigativa sono stati documentati importanti momenti dell’evoluzione dei Batanesi, rappresentati dall’operatività di una loro “cellula” in territorio di Centuripe, in provincia di Enna. Questa aveva la capacità di intervenire in dinamiche mafiose a Regalbuto e Catenanuova, entrambi i comuni nella provincia di Enna, mediante rapporti con esponenti della locale criminalità organizzata ed alla loro estensione di influenza sul territorio di Montalbano Elicona (in provincia di Messina), un tempo controllato dalla famiglia mafiosa di Barcellona Pozzo di Gotto, nella stessa provincia.

In Sicilia ancora uno Stato ombra

Nel contesto dei poteri e delle influenze tracciate dalle indagini è emerso inoltre l’allarmante riconoscimento del ruolo rivestito da alcuni esponenti dell’organizzazione mafiosa da parte di pubblici ufficiali. Uno dei membri più attivi della famiglia mafiosa batanese, ad esempio, è stato interpellato da un funzionario della Regione Siciliana in relazione a furti e danneggiamenti di un mezzo meccanico dell’amministrazione regionale impiegato nell’esecuzione di lavori in area territoriale diversa dal comprensorio di Tortorici. Nel corso dell’attività investigativa sono inoltre state documentate attività illecite tradizionali dell’organizzazione mafiosa, tra le quali due distinte associazioni finalizzate al traffico di stupefacenti ed estorsioni. Il business dell’organizzazione era però estremamente interessato all’accaparramento di terreni, la cui disponibilità era ineludibile presupposto per accedere ai contributi comunitari. Per l’acquisizione dei lotti agricoli venivano quindi utilizzati i metodi tipicamente mafiosi.

La mafia ed i fondi dell’Unione europea

L’interesse ad ottenere – illecitamente – ingenti contributi comunitari concessi dall’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura (Ag.E.A.) si è infatti rivelato quale principale attività per tutta l’organizzazione mafiosa presente sul territorio. Un interesse perseguito senza alcun contrasto e dunque in completo accordo con i gruppi mafiosi oggetto delle indagini. È stata effettivamente accertata, a partire dal 2013, l’illecita percezione di erogazioni pubbliche per oltre 10 milioni di euro con il coinvolgimento di oltre 150 imprese agricole (società cooperative o ditte individuali), tutte direttamente o indirettamente riconducibili alle due famiglie mafiose, alcune delle quali meramente cartolari ed inesistenti nella realtà. “La percezione fraudolenta delle somme è stata possibile grazie all’apporto compiacente di colletti bianchi – spiega la Direzione Distrettuale Antimafia di Messina – identificati dalle indagini: ex collaboratori dell’ Ag.E.A., un notaio, numerosi responsabili dei Centri di Assistenza Agricola (C.A.A.)”. I cosiddetti “colletti bianchi” erano i portatori del know how necessario per realizzare l’infiltrazione della criminalità mafiosa nei meccanismi di erogazione di spesa pubblica, e conoscitori dei limiti del sistema dei controlli.

Il metodo dei colletti bianchi

Mediante l’uso di intercettazioni e le acquisizioni documentali presso diversi CAA dei fascicoli aziendali delle singole ditte/società attraverso le quali venivano perpetrate le truffe, e mediante perquisizioni eseguite presso le abitazioni dei principali indagati e presso alcuni Centri di Assistenza Agricola, è emerso come gli operatori di detti Centri di Assistenza e gli appartenenti all’organizzazione mafiosa, concordassero: 1) la predisposizione di falsa documentazione attestante la titolarità di terreni da inserire nelle domande di contribuzione, anche mediante l’utilizzo di timbri falsi; 2) la cessazione delle ditte/aziende già utilizzate (mettendole in liquidazione); 3) il trasferimento dei titoli autorizzativi da una società/ditta ad altre da utilizzare nel contesto dell’organizzazione; 4) lo spostamento delle particelle dei terreni da una azienda a favore di altre riconducibili agli stessi sodali; 5) la revoca dei mandati riferiti a precedenti Centri di Assistenza Agricola a favore di altri, e ciò al fine di rendere più difficile il reperimento della documentazione utile agli organi di controllo.

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*