Convenzioni internazionali e Codice penale violati dal Governo italiano

Codice penale italiano e Convenzioni internazionali sono stati ripetutamente violati nell’azione del Governo Conte ed in particolare del Ministro dell’Interno guidato da Matteo Salvini in quella che è stata una evidenza di fallimento nella lotta ai soccorsi in mare spacciata per guerra alle navi Ong

di Fulvio Vassallo Paleologo

Nel tardo pomeriggio di giovedì 29 agosto si è finalmente realizzato il trasbordo dei minori, delle donne e delle persone malate, dalla Mare Jonio ad un mezzo della Guardia costiera, 13 miglia al largo di Lampedusa, dopo il provvedimento di divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane, adottato dal ministro dell’interno e notificato dalla Guardia di finanza nelle prime ore della stessa giornata. Un provvedimento illegittimo, apparentemente fondato sui vasti poteri discrezionali riservati al ministro dell’interno dall’art. 1 del decreto legge sicurezza bis, n.54/2019, adesso convertito in legge, che però non risulta coerente con gli “obblighi internazionali dell’Italia”, tra le quali si possono comprendere le norme cogenti contenute nelle Convenzioni di diritto del mare ( UNCLOS, SAR e SOLAS), nella Convenzione di Ginevra sui rifugiati, nei Regolamenti europei in materia di controllo delle frontiere e sull’agenzia Frontex, nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, oltre che nelle Convenzioni internazionali che tutelano specificamente le donne, le persone malate, i minori non accompagnati, le vittime di tratta. Nel Protocollo contro il traffico di esseri umani allegato alla Convenzione di Palermo contro il crimine transnazionale del 2000 si ribadisce (art. 19) che “(1) Nessuna disposizione del presente Protocollo pregiudica diritti, obblighi e responsabilità degli Stati e individui ai sensi del diritto internazionale, compreso il diritto internazionale umanitario e il diritto internazionale dei diritti dell’uomo e, in particolare, laddove applicabile, la Convenzione del 1951 e il Protocollo del 1967 relativi allo Status di Rifugiati e il principio di non allontanamento. (2) Le misure di cui al presente Protocollo sono interpretate ed applicate in modo non discriminatorio alle persone sulla base del fatto che sono oggetto delle condotte di cui all’articolo 6 del presente Protocollo. L’interpretazione e l’applicazione di tali misure è coerente con i princìpi internazionalmente riconosciuti della non discriminazione.”

Secondo l’art. 1 del decreto sicurezza bis: “Il Ministro dell’interno, Autorità nazionale di pubblica sicurezza ai sensi dell’articolo 1 della legge 1° aprile 1981, n. 121, nell’esercizio delle funzioni di coordinamento di cui al comma 1-bis e nel rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia, può limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale, per motivi di ordine e sicurezza pubblica ovvero quando si concretizzano le condizioni di cui all’articolo 19, comma 2, lettera g), limitatamente alle violazioni delle leggi di immigrazione vigenti, della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, con allegati e atto finale, fatta a Montego Bay il 10 dicembre 1982, ratificata dalla legge 2 dicembre 1994, n. 689. Il provvedimento è adottato di concerto con il Ministro della difesa e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, secondo le rispettive competenze, informandone il Presidente del Consiglio dei ministri”

Per quanto riguarda le funzioni di polizia dirette alla sorveglianza ed al controllo delle frontiere marittime, ai sensi dell’art. 12 del Testo Unico immigrazione e del discendente Decreto Interministeriale del 14 luglio 2003, il Corpo delle capitanerie di porto – Guardia costiera opera sotto la direzione del Ministero dell’Interno – Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia di frontiera

Il ministro dell’interno, attraverso la norma introdotta dal decreto legge sicurezza bis (adesso art.11 comma 1 ter del T.U. n.286/98), con gli ordini di interdizione della navigazione nelle acque territoriali impartiti alle autorità marittime, si è riservato di fatto il potere di conformare e determinare la ricorrenza di una o più fattispecie penali, oltre che di sanzioni amministrative, come si sta verificando in modo drammatico nei più recenti casi dei soccorsi operati dalle ONG Sea Watch, Mediterranea Saving Humans, Open Arms. Questo potere non può estendersi fino al punto di operare una differenziazione in ordine al diritto allo sbarco in territorio italiano, nè tantomeno può precludere alla nave soccorritrice, soprattutto nel caso in cui questa batta bandiera italiana, di fare ingresso nelle acque territoriali per procedere allo sbarco dei naufraghi nel porto sicuro più vicino.

Come osserva il magistrato Stefano Calabria, “non deve trarre in inganno il riferimento «all’articolo 19, comma 2, lettera g), limitatamente alle violazioni delle leggi di immigrazione vigenti, della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, con allegati e atto finale, fatta a Montego Bay il 10 dicembre 1982, ratificata dalla legge 2 dicembre 1994, n. 689». Tale norma convenzionale stabilisce infatti che è da considerarsi come passaggio non inoffensivo quello della nave che effettui «il carico o lo scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero»; in questo caso il passaggio può arrecare nocumento alla «pace», al «buon ordine» ed alla «tranquillità» dello Stato costiero. La stessa norma convenzionale, invero, rimanda alle «leggi di immigrazione vigenti nello Stato costiero», le quali, anche per lo straniero «comunque presente alla frontiera», fanno salvo ed anzi includono il principio di non respingimento ed il divieto delle espulsioni collettive”.

Lo scorso 19 giugno 2019, la Corte Costituzionale ha censurato l’accentramento in capo al Ministero dell’Interno di poteri spettanti agli enti locali in tema di Daspo, in considerazione dei rischi istituzionali di una eccessiva concentrazione di poteri. L’attribuzione di competenze al Ministero dell’Interno, anziché al Ministero delle Infrastrutture e trasporti, del potere di limitare o vietare il transito o la sosta di imbarcazioni determina una grave alterazione del rispetto dello stato di diritto per tutto ciò che accade nelle diverse zone SAR (ricerca e salvataggio) in relazione al concetto assai discrezionale di ordine pubblico. Come dimostra la più recente esperienza, l’obbligo ineludibile di individuare con la maggiore sollecitudine il porto sicuro di sbarco più vicino, diventa oggetto di trattative tra stati e di propaganda politica. E pur di giustificare i divieti di ingresso nel mare territoriale, si anticipano ipotesi di responsabilità penale, per il reato di agevolazione dell’ingresso di irregolari, o peggio per concorso con i trafficanti, che alla verifica dei controlli giurisdizionali sono rimaste allo stato di ipotesi non provate.

Il ministro Trenta che pure con il ministro Toninelli aveva cofirmato per “atto di concerto” il divieto di ingresso nelle acque territoriali emesso dal Viminale nei confronti della nave Mare Jonio di Mediterranea, aveva ribadito «il sacrosanto diritto di bambini, donne in gravidanza, ammalati o persone in difficoltà di essere soccorsi e poter sbarcare, perché a fianco del decreto Sicurezza sono vigenti, per fortuna, norme che lo impongono». Una motivazione che avrebbe dovuto indurre il ministro a non apporre la sua firma al provvedimento adottato dal Viminale.

Si osserva come tale atto di concerto corrisponda a due principali ordini di ragioni:

a) acquisizione della preventiva e necessaria condivisione da parte dell’autorità nazionale competente in materia di disciplina della navigazione marittima;

b) raccordo della nuova previsione con una disposizione, di analogo contenuto ma rispondente a diversa finalità, già prevista nell’ordinamento nazionale e costituita dall’art. 83 del codice della navigazione.

Infatti, secondo l’art. 83 del Codice della navigazione, norma che non è stata certo abrogata dal Decreto sicurezza bis, “il Ministro dei trasporti e della navigazione può limitare o vietare il transito e la sosta di navi mercantili nel mare territoriale, per motivi di ordine pubblico, di sicurezza della navigazione e, di concerto con il Ministro dell’ambiente, per motivi di protezione dell’ambiente marino, determinando le zone alle quali il divieto si estende”. In merito a questa norma si osserva come essa risponda “alla finalità che si era preposto di conseguire il Legislatore del 1942, di garantire un particolare ordine pubblico non configurabile come una mera estensione del concetto di ordine pubblico “terrestre” esercitabile dall’organizzazione di Pubblica Sicurezza, ma come un vero proprio ordine pubblico “marittimo” e perciò tutelabile proprio dal Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti in quanto strettamente connesso alla tutela preventiva dei beni della navigazione e del mare territoriale espressamente contemplati dal codice della navigazione cui si attribuisce grande rilevanza sia in termini economici che in termini strategici (per la difesa dello Stato e per l’approvvigionamento di risorse). Pertanto un ordine pubblico inteso come complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi primari pubblici primari sui quali si regge l’ordinata e civile convivenza da non confondere con la sicurezza pubblica”.

Nell’autorizzare lo sbarco dalla Mare Jonio di una settantina di minori e di persone vulnerabili, Salvini, ha confermato il divieto di ingresso e sbarco già intimato al comandante dell’imbarcazione della ong Mediterranea, che – secondo il Viminale – «non rispetta le leggi e in modo preordinato provoca lo stato di necessità a bordo per sbarcare in Italia». Ma non si vede come il soccorso in acque internazionale possa essere considerato un reato per una supposta volontà di introdurre stranieri irregolari in Italia, e d’altra parte, quale pericolo per l’ordine pubblico possano costituire naufraghi, anche se non identificabili già al momento del soccorso, ma comunque assolutamente identici sotto questo profilo al numero ben più rilevante di persone che vengono intercettate in mare o soccorse da mezzi della Guardia costiera, della Marina militare o della Guardia di finanza.

La Corte di Cassazione “nell’affermare la sussistenza della giurisdizione italiana nei confronti di trafficanti che avevano abbandonato i migranti su imbarcazioni di fortuna in acque internazionali (come nel caso in esame), ha ritenuto che la condotta dei soccorritori dovesse andare esente da responsabilità penale per la copertura della scriminante dello stato di necessità, tanto da ricondurla alla figura dell’autore mediato, di cui all’art. 48 cp. Secondo i giudici di legittimità la menzionata condotta è conseguente allo stato di pericolo volontariamente provocato dai trafficanti, al punto dall’essere legata, senza soluzione di continuità, alle azioni criminose di questi ultimi poste in essere in ambito extraterritoriale (così Cass., sez. 1, sent. 18 maggio 2015 n. 20503, Rv. 263670)”.

Come confermato da diversi provvedimenti della magistratura, da ultimo dal Giudice delle indagini preliminari di Agrigento che ha disposto il dissequestro della nave Open Arms le attività di soccorso in acque internazionali operate dalle organizzazioni non governative, almeno nel caso esaminato, sono pienamente lecite. Malgrado si affermi da tempo dal Viminale che le stesse, a seguito della istituzione di una fantomatica zona SAR “libica” e della ampia collaborazione instaurata con la sedicente guardia costiera “libica” risulterebbero in violazione del dovere di obbedire ai comandi dell’autorità nazionale responsabile per il coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio (MRCC), con base a Tripoli e supportata dalla missione Nauras della marina militare italiana, oltre che da assetti aerei europei. Una “Centrale di coordinamento” che in Libia assume le caratteristiche di una struttura federale che vede la partecipazione di poche città della costa (JRCC Libia) e che non garantisce alcuna sicurezza neppure all’interno delle acque territoriali libiche. Anche se gli stati europei non lesinano la loro assistenza.

Il gip del tribunale di Agrigento Stefano Zammuto ha disposto la restituzione (dissequestro) della nave della Ong Open Arms. osservando che “non sussistono, dopo l’evacuazione e il soccorso dei migranti, esigenze probatorie anche in considerazione del fatto che non si ascrive all’organizzazione e all’equipaggio alcuna responsabilità”.  Secondo lo stesso magistrato, piuttosto, si potrebbero configurare gravi reati, allo stato a carico di ignoti, che avrebbero impedito l’ingresso della nave nelle acque territoriali e lo sbarco dei naufraghi nel porto sicuro più vicino. La prospettiva sulla base della quale il Viminale adotta i divieti di ingresso nelle acque territoriali nei confronti delle ONG viene così completamente ribaltata: non è illecita l’attività di soccorso in acque internazionali, ma, in via di ipotesi, ricorre un illecito, ancora a carico di ignoti, in ordine alla mancata indicazione di un porto di sbarco sicuro, conseguenza del divieto di ingresso nelle acque territoriali.

Il giudice di Agrigento scrive infatti che “sussiste il fumus del reato di sequestro di persona da parte dei pubblici ufficiali in corso di identificazione sulla base del fatto che il Tar aveva sospeso il divieto di ingresso in acque territoriali e i migranti sono, quindi, stati trattenuti indebitamente dal 14 agosto”. Il magistrato rileva “analogie con la cosiddetta vicenda Diciotti” in quanto, in questo caso, “è stato omesso il preciso obbligo di individuare un porto sicuro spettante all’Italia in quanto primo porto di approdo in base al trattato di Dublino”.

Secondo il Regolamento UE n.656 del 2014, ( al Considerando 8) “durante operazioni di sorveglianza di frontiera in mare, gli Stati membri dovrebbero rispettare i rispettivi obblighi loro incombenti ai sensi del diritto internazionale, in particolare della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, della Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare, della Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale e del suo protocollo per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria, della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo e di altri strumenti internazionali pertinenti.”

La Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare del 1979 (Convenzione SAR) obbliga specificatamente gli Stati parte a “…garantire che sia prestata assistenza ad ogni persona in pericolo in mare… senza distinzioni relative alla nazionalità o allo status di tale persona o alle circostanze nelle quali tale persona viene trovata” (Capitolo 2.1.10) ed a “[…] fornirle le prime cure mediche o di altro genere ed a trasferirla in un luogo sicuro”. (Capitolo 1.3.2).

L’art. 10, par 1, della Convenzione di Amburgo del 1979 (SAR) prevede che ogni comandante è obbligato, nella misura in cui lo possa fare senza serio pericolo per la propria nave e le persone a bordo, a rendere assistenza a qualsiasi persona che rischia di perire in mare.  Il comandante di una nave in navigazione che sia in grado di poter prestare assistenza, al ricevimento di un segnale da qualsiasi provenienza indicante che delle persone si trovano in pericolo in mare, è obbligato a portarsi a tutta velocità ad assisterle, se possibile informando tali persone o il servizio di ricerca e soccorso di quanto la nave sta facendo. Esiste un preciso dovere per le autorità SAR informate dal comandante di coordinare le attività di soccorso ed indicare il porto sicuro di sbarco più vicino.

Ogni operazione SAR è condotta sotto la direzione di un Coordinatore SAR. Tale funzione rileva esclusivamente per la durata di uno specifico evento SAR ed è normalmente espletata dal dirigente di un MRCC Centro di coordinamento per il soccorso (Rescue Coordination Centre)o da un suo delegato. Quando due o più risorse SAR operano congiuntamente nella stessa missione, una persona sul posto può essere necessaria per coordinare l’attività di tutti i mezzi partecipanti. Il SMC Coordinatore di missione SAR (SAR Mission Co-ordinator) designa un OSC Coordinatore sul posto (On Scene Co-ordinator) il quale può essere la persona al comando di:

– un’unità di ricerca e soccorso (SRU), nave o velivolo partecipante alla ricerca, oppure- un’unità nelle vicinanze in posizione tale da consentire l’espletamento dei compiti di OSC -la persona al comando della prima risorsa che giunge sulla scena assumerà, normalmente, le funzioni di OSC sino a quando il SMC disporrà per la sua sostituzione.

In base a quanto espressamente previsto dalle Convenzioni UNCLOS e SAR, il primo MRCC che riceva notizia di una possibile situazione di emergenza S.A.R. ha la responsabilità di adottare le prime immediate azioni per gestire tale situazione, anche qualora l’evento risulti al di fuori della propria specifica area di responsabilità. Ciò almeno fino a quando tale responsabilità non venga formalmente accettata da un altro MRCC, quello competente per l’area o altro in condizioni di prestare una più adeguata assistenza (Manuale IAMSAR – Ed. 2016; Risoluzione MSC 167-78 del 20/5/2004). Il mero recupero a bordo della nave soccorritrice delle persone in pericolo o dei naufraghi, non determina tuttavia la conclusione delle operazioni S.A.R., perché le operazioni possono considerarsi terminate solo con lo sbarco di dette persone in un luogo sicuro (place of safety o P.O.S.). Per tale motivo, l’obbligo di individuare detto luogo sicuro, in accordo con tutte le altre Autorità eventualmente interessate, ricade sull’MRCC che ha la responsabilità del coordinamento delle operazioni stesse, in accordo con tutte le altre Autorità governative interessate.

Come ha affermato il contrammiraglio Liardo in una recente audizione alla Camera, “Lo scopo delle norme internazionali di diritto del mare vigenti dal 2004 è quello di assicurare che all’obbligo del comandante della nave di prestare assistenza faccia da necessario complemento l’obbligo degli Stati di coordinare le operazioni e fornire ogni possibile assistenza alla nave soccorritrice, liberandola quanto prima dall’onere sostenuto in adempimento del dovere di soccorso. In particolare tali emendamenti e le discendenti linee guida emanate dall’IMO (Ris. MSC 167-78 del 20.5.2004) hanno stabilito l’obbligo, per lo Stato cui appartiene il MRCC che per primo abbia ricevuto la notizia dell’evento o che comunque abbia assunto il coordinamento delle operazioni di soccorso, di individuare sul proprio territorio un luogo sicuro ove sbarcare le persone soccorse, qualora non vi sia la possibilità di raggiungere un accordo con uno Stato il cui territorio fosse eventualmente più prossimo alla zona dell’evento”. Se si esclude che la Libia possa garantire porti sicuri di sbarco, come escludono l’UNHCR, la Commissione europea e la magistratura italiana, in caso di disaccordo con le autorità maltesi, l’Italia non può eludere l’obbligo di una sollecita indicazione del porto sicuro di sbarco più vicino, o di altro rapidamente raggiungibile nel territorio nazionale. Come peraltro è stata prassi regolarmente seguita dal 2014 al 2017.

La stessa Guardia Costiera osservava già lo scorso anno come “e Autorità libiche, oltre ad aumentare la presenza in mare seppure limitatamente a specifiche aree, hanno provveduto ad inoltrare all’International Maritime Organization (I.M.O.) una dichiarazione relativa all’istituzione di un’area di responsabilità SAR (Search and Rescue Region – SRR) in data 14.12.2017 che faceva seguito ad una precedente dichiarazione dello scorso luglio successivamente annullata nei giorni precedenti alla nuova dichiarazione. L’arrivo sullo scenario delle unità della Marina Militare e della Guardia Costiera libica ha tuttavia comportato, in talune circostanze, criticità dovute alle difficoltà di comunicazioni sia con le rispettive Autorità di riferimento a terra che con i mezzi a mare impegnati nelle operazioni, in parte mitigata, negli ultimi mesi dell’anno, dall’avvio dell’operazione italiana Nauras”.

A pochi giorni dall’entrata in vigore, in Italia, del c.d. decreto sicurezza-bis, e dall’immediata adozione del primo “divieto ministeriale di ingresso” nelle acque territoriali italiane ai sensi del nuovo art. 11, co. 1-ter T.U. imm., il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, aveva emanato una raccomandazione dal titolo Lives Saved. Rights protected. Bridging the protection gap for refugees and migrants in the Mediterranean, (ZIRULIA, DPC). Secondo il Commissario, “non è giustificabile la prassi degli Stati membri del Consiglio d’Europa consistente nel tentare di dirottare le richieste d’aiuto proveniente dalla SRR libica sul JRCC di quel paese; al contrario, deve ritenersi che il diritto internazionale determini il radicamento ed il mantenimento della responsabilità in capo agli stessi RCC continentali”. Indicazione queste che risultano in netto contrasto con le più recenti Direttive/diffide adottate dal ministro dell’interno italiano nei confronti delle poche ONG ancora operative nel Mediterraneo centrale, malgrado una raffica di denunce e di sequestri.

L’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ha espresso ancora una volta, dopo la conversione in legge del Decreto sicurezza bis n.53/2019, la propria profonda preoccupazione a seguito della modifica apporta alla Camera che impone sanzioni ancore più severe alle imbarcazioni e alle persone che conducono operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo. Secondo l’UNHCR, “l’imposizione di sanzioni pecuniarie e di altro tipo ai comandanti delle navi potrebbe ostacolare o impedire le attività di soccorso in mare da parte delle navi private in un momento in cui gli Stati europei hanno significativamente ritirato il proprio sostegno alle operazioni di soccorso nel Mediterraneo Centrale”.

Le Nazioni Unite ribadiscono ancora una volta come le ONG svolgano “un ruolo cruciale nel salvare le vite dei rifugiati e migranti che intraprendono la pericolosa traversata per arrivare in Europa. Il loro impegno e l’umanità che guida le loro azioni non dovrebbero essere criminalizzati o stigmatizzati. Allo stesso modo, alle imbarcazioni commerciali e a quelle delle ONG non deve essere chiesto né di trasbordare sulle navi della Guardia Costiera libica le persone soccorse, né di farle sbarcare in Libia. Alla luce della situazione di sicurezza estremamente volatile, dei conflitti in corso, delle segnalazioni molto diffuse di violazioni di diritti umani e dell’uso generalizzato della detenzione arbitraria per le persone soccorse o intercettate in mare, la Libia non costituisce un porto sicuro ai fini dello sbarco”.

Secondo quanto dichiarato dall’UNHCR, «il soccorso in mare è una tradizione secolare e un obbligo che non si esaurisce tirandole persone fuori dall’acqua. Un salvataggio può essere considerato completo una volta che i passeggeri hanno raggiunto la terraferma in un porto sicuro».Anche un gruppo di relatori speciali delle Nazioni Unite ha scritto al governo italiano richiamando l’art. 98 della Convenzione UNCLOS che il decreto legge sicurezza bis richiama soltanto per la norma di carattere derogatorio rispetto al principio generale della libertà di navigazione (art. 19), precisando che la normativa introdotta dalla Convenzione «is con-sidered customary law. It applies to all maritime zones and to all persons in distress, without discrimination, as well as to all ships, including private and NGO vessels under a State flag». In ordine alle attività SAR ed alla indicazione di un porto di sbarco sicuro TUTTI i naufraghi vanno sbarcati nei tempi più rapidi senza che gli stati possano distinguere a seconda della loro vulnerabilità, della loro età o del loro sesso. Con l’ovvia riserva preferenziale delle evacuazioni per accertate condizioni sanitarie d’urgenza (MEDEVAC).

“Chiunque sia in grado di intervenire per soccorrere vite umane in mare ha l’obbligo giuridico di farlo e in caso contrario, ove si attendesse per un ordine proveniente da autorità statali, si potrebbe configurare una omissione di soccorso (secondo gli articoli 1113 e 1158 del Codice della navigazione), con le eventuali aggravanti dovute a conseguenze drammatiche, in primo luogo naufragio e omicidio colposi”. I poteri-doveri d’intervento e coordinamento da parte degli apparati di un singolo Stato nell’area di competenza non escludono, sulla base delle norme su indicate, che unità navali di diversa bandiera possano iniziare il soccorso quando l’imminenza del pericolo per la vita umana lo richieda.

In base all’art. 69 del Codice della navigazione (Soccorso a navi in pericolo e a naufraghi), l’autorità marittima, che abbia notizia di una nave in pericolo ovvero di un naufragio o di altro sinistro, deve immediatamente provvedere al soccorso e, quando non abbia a disposizione né possa procurarsi i mezzi necessari, deve darne avviso alle altre autorità che possano utilmente intervenire. La norma vale per tutti i naufraghi e non solo per categorie determinate in base alla loro vulnerabilità.

La sopravvenienza di motovedette libiche, durante attività di ricerca e salvataggio in precedenza coordinate dalle autorità italiane e successivamente affidate alle stesse motovedette tripoline non può costituire una “alternativa” al soccorso operato dalle ONG, quando i mezzi di queste organizzazioni si trovino già sulla scena SAR e siano in grado di salvare vite umane in mare, nei tempi più rapidi possibili e con la maggiore efficacia, come imposto dalle Convenzioni internazionali. Né appare plausibile asserire “a posteriori” che il soccorso non sia qualificato come “stato di necessità”, facendo leva sulle condizioni meteo marine (buone) e sulla galleggiabilità del gommone sul quale sono imbarcati i migranti. Criteri questi respinti da tutte le Convenzioni internazionali che privilegiano la salvaguardia della vita umana in mare e non la diversione dei migranti verso i porti di partenza o la subordinazione degli interventi di soccorso allo stato di galleggiabilità delle imbarcazioni target.

Si osserva in dottrina come le imbarcazioni utilizzate dai migranti “a volte sono dei semplici natanti e che nella gran parte dei casi sono unsafe, cioè prive dei requisiti di navigabilità secondo la SOLAS. Da ciò deriva la circostanza che la richiesta di soccorso può pervenire agli organi SAR nazionali prima che si verifichi un evento pregiudizievole per la vita delle persone trasportate. Il problema riguarda in particolare la questione dell’esistenza di un effettivo o imminente distress (situazione cioè di pericolo), potendosi anche presentare il caso che la richiesta avvenga in assenza di pericolo imminente, ma tuttavia sia avanzata da un’imbarcazione priva dei requisiti di sicurezza”.

Il ministro dell’interno, sulla base dell’art. 11 comma 1 ter del T.U.286/98, come introdotto dal decreto sicurezza bis n. 53/2019, non può dunque adottare il divieto di ingresso nelle acque territoriali nei confronti di una nave umanitaria che ha soccorso naufraghi in acque internazionali, seppure nella fantomatica zona SAR “libica”, adducendo una preordinata volontà degli operatori umanitari tesa ad introdurre cittadini stranieri irregolari in Italia, che sarebbe in ipotesi sanzionata dall’art. 12 del T.U. sull’immigrazione n. 286 del 1998, ed escludendo la cd. esimente umanitaria. Come osserva Simone Perelli, sostituto procuratore generale presso la Corte di cassazione, “pare iniquo privilegiare l’interpretazione letterale della norma e affermare «che tale scriminante operi, soltanto nell’ipotesi in cui i cittadini extracomunitari si trovino già nel territorio italiano» per le seguenti considerazioni. In primo luogo, tale causa di esclusione dell’antigiuridicità non può non essere ancorata alla condotta punibile: quando la condotta vietata sia commessa al di fuori dei confini territoriali e, nondimeno, sussista la giurisdizione dello Stato, una interpretazione logico-sistematica costituzionalmente orientata suggerisce l’operatività di questa scriminante. In secondo luogo, perché la condotta delittuosa, ove non punibile al di fuori dei confini nazionali (come nel caso in esame), è comunque punibile quando nelle acque territoriali si verifichino l’ingresso e lo sbarco dei cittadini extracomunitari. A partire da questo momento, non vi è più ragione per non ritenere operante la scriminante speciale di avere compiuto attività di soccorso e assistenza umanitaria nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato”.

Si può quindi concludere che “la mancata designazione di un luogo dove sbarcare, dove ricevere cura e assistenza, dove essere identificati e dove poter avere accesso in concreto agli strumenti di tutela previsti dal diritto internazionale, appare priva di basi legali e”, come denuncia il Garante nazionale per le persone private della libertà personale, “non ha soltanto effetti gravi nei confronti delle persone, ma espone anche il Paese al rischio di censure sul piano internazionale per il non adempimento di obblighi sottoscritti e ratificati in trattati e convenzioni di cui l’Italia è parte”.

Come ha osservato nel suo comunicato del 16 agosto scorso, relativo alla nave Open Arms, il Garante nazionale per le persone private della libertà personale, “non è possibile che per godere di diritti che attengono alla persona in quanto tale e delle garanzie che sono costituzionalmente assicurate a chiunque si trovi nel territorio del nostro Paese, si debba giungere a condizioni così estreme”.

Come ha rilevato il Tribunale dei ministri di Catania, in occasione della richiesta di autorizzazione a procedere contro il ministro dell’interno, “l’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso dovere degli Stati e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare. Le Convenzioni internazionali in materia, cui l’Italia ha aderito, costituiscono un limite alla potestà legislativa dello Stato e, in base agli artt. 10, 11 e 117 della Costituzione, non possono costituire oggetto di deroga da parte di valutazioni discrezionali dell’autorità politica (…), assumendo un rango gerarchico superiore rispetto alla disciplina interna (l’art. 117 Cost. prevede che la potestà legislativa è esercitata nel rispetto, tra l’altro, dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali). Si precisa che tale conclusione è il frutto delle Convenzioni Uniclos, Solas e Sar, di cui si è scritto in precedenza, e si aggiunge poi che, nel luglio del 2006, sono entrati in vigore sia alcuni emendamenti alle Convenzioni Solas e Sar sia le correlate linee guida, le quali pongono un espresso «obbligo degli Stati di cooperare nelle situazioni di soccorso» e che stabiliscono «che il governo responsabile per la regione Sar in cui sono stati recuperati i sopravvissuti sia responsabile di fornire un luogo sicuro» dove sbarcare i naufraghi; eguale obbligo vi è però in capo anche all’autorità nazionale «che ha avuto il primo contatto con la persona in pericolo in mare… tanto nel caso in cui l’autorità nazionale competente Sar dia risposta negativa alla possibilità di intervenire in tempi utili, quanto in assenza di ogni riscontro da parte di quest’ultima”.

Nel caso preso in esame (Diciotti) i giudici catanesi rilevavano che “lo sbarco di 177 cittadini stranieri non regolari non potesse costituire un problema cogente di ordine pubblico, per diverse ragioni, ed in particolare: a) in concomitanza con il ‘caso Diciotti’, si era assistito ad altri numerosi sbarchi dove i migranti soccorsi non avevano ricevuto lo stesso trattamento; b) nessuno dei soggetti ascoltati da questo Tribunale ha riferito (come avvenuto invece per altri sbarchi) di informazioni sulla possibile presenza, tra i soggetti soccorsi, di ‘persone pericolose’ per la sicurezza e l’ordine pubblico nazionale (p. 40).” Identiche considerazioni possono valere per tutti gli sbarchi operati dalle ONG fino ad oggi, non essendo stati confermati da alcun riscontro processuale i reiterati allarmi provenienti dal Viminale, circa la presenza di terroristi o criminali, tra le persone soccorse in acque internazionali dopo essere fuggite dalla Libia. E questa, viste le motivazioni adottate dal ministro dell’Interno, costituisce un’altra ragione di illegittimità del provvedimento di divieto adottato da ultimo anche con questa motivazione nei confronti della nave Mare Jonio di Mediterranea.

Concludeva il Tribunale dei ministri di Catania, con una argomentazione forte, che si può estendere a tutti i divieti di sbarco o di ingresso nelle acque territoriali disposti dopo quel caso soltanto nei confronti delle navi umanitarie delle ONG, come “l’atto del Ministro Sen. Matteo Salvini costituisce un atto amministrativo che, perseguendo finalità politiche ultronee rispetto a quelle prescritte dalla normativa di riferimento, ha determinato plurime violazioni di norme internazionali e nazionali, che hanno comportato l’intrinseca illegittimità dell’atto amministrativo censurata da questo Tribunale (…). Va dunque sgomberato il campo da un possibile equivoco e ribadito come questo Tribunale intenda censurare non già un atto politico dell’Esecutivo, bensì lo strumentale ed illegittimo utilizzo di una potestà ammnistrativa di cui era titolare il Dipartimento delle libertà civili e dell’immigrazione, che costituisce articolazione del Ministero dell’interno presieduto dal Sen. Matteo Salvini” (p. 47).

Il successivo voto del Senato sul caso Diciotti è stato conseguenza di una mera scelta politica dei partiti che hanno manifestato la loro contrarietà all’esercizio dell’azione penale nei confronti del ministro dell’interno per un “superiore interesse nazionale”, piuttosto che costituire smentita di queste tesi argomentative. Che dunque mantengono tutta per intero la loro forza persuasiva e la loro fondatezza giuridica. Vedremo adesso, se si ripresenteranno casi simili all’esame del Parlamento, come si comporteranno i parlamentari, a fronte di un mutato quadro politico. Di certo, l’esercizio obbligatorio dell’azione penale non impedisce che quel precedente blocchi altre indagini legate alla mancata indicazione di un porto sicuro di sbarco. alle ONG che abbiano operato soccorsi in acque internazionali.

Alla luce del diritto internazionale e nazionale vigente, e della giurisprudenza che si è consolidata in Italia, non si vede davvero come il passaggio di una nave che ha soccorso persone in pericolo in alto mare e intenda entrare nelle acque territoriali al fine di perfezionare l’adempimento dei doveri di soccorso incombenti sugli stati e sui comandanti delle navi possa essere considerato un “passaggio non inoffensivo”, in violazione di norme interne sull’immigrazione, dal momento che norme internazionali e interne lo rendono obbligatorio ai fini della conclusione delle operazioni di salvataggio. ln materia è intervenuto il Tribunale di Agrigento con l’ordinanza del 2 luglio 2019 sulla richiesta di convalida di arresto e disapplicazione della misura cautelare: «L’attività del capitano della nave Sea Watch 3, di salvataggio in mare di soggetti naufraghi, deve, infatti, considerarsi adempimento degli obblighi derivanti da convenzioni internazionali. Su tale quadro normativo non si ritiene possa incidere l’art. 11 comma 1-ter del Dlgs 286/98 (comma introdotto dal DL n. 53/2019): difatti, ai sensi di detta disposizione, il divieto interministeriale da essa previsto (di ingresso, transito e sosta) può avvenire, sempre nel rispetto degli obblighi internazionali dello Stato, solo in presenza di attività di carico o scarico di persone in violazione delle leggi vigenti dello Stato costiero, fattispecie qui non ricorrente vertendosi in una ipotesi di salvataggio in mare in caso di rischio di naufragio. Peraltro, l’eventuale violazione del citato art. 11 comma 1-ter – si ribadisce sanzionata in sola via amministrativa – non fa venir meno l’inderogabile disposto di cui all’art. 10 ter del Dlgs 286/98 avente ad oggetto l’obbligo di assicurare il soccorso, prima, e la conduzione presso gli appositi centri di assistenza, poi. Osserva quel giudice che “in definitiva, la facoltà degli Stati di inibire l’ingresso nelle proprie acque territoriali alle navi straniere, non può determinare la violazione di diritti fondamentali della persona sanciti dalle Convenzioni internazionali in materia di diritti umani e dalla nostra Carta costituzionale”. E nel caso della Mare Jonio di Mediterranea si tratta addirittura di una nave che batte bandiera italiana.

La richiesta di sbarco immediato per tutti i naufraghi ancora a bordo della Mare Jonio va indirizzata alle autorità amministrative e politiche perché in conformità ai principi costituzionali ed alle Convenzioni internazionali permettano l’ingresso della stessa nave nel mare territoriale e lo sbarco nel porto sicuro più vicino. Ma spetta agli organi della giurisdizione accertare comportamenti e responsabilità per impedire che in futuro possa ancora protrarsi quella situazione di impunità che corrisponde ad una preordinata svalutazione della dignità umana e del valore della vita delle persone che vengono soccorse in mare dopo essere fuggite da un paese nel quale sono continuamente esposte a trattamenti inumani o degradanti. Un paese verso il quale non possono e non devono fare ritorno.

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