Niente associazione per delinquere, ma solidarietà ancora sotto sequestro

Il sequestro preventivo della nave di ProActiva Open Arms. Le accuse rivolte agli operatori umanitari ed al coordinatore della ProActiva Open Arms. Inesistenza di un obbligo di consegna dei migranti soccorsi in acque internazionali alla “Guardia costiera libica”. Non esiste un’area di ricerca e soccorso (SAR) controllata dalle autorità libiche. La collaborazione tra le autorità libiche e quelle italiane nelle intercettazioni in mare. La individuazione del luogo di sbarco in base al diritto internazionale. Perché le navi delle ong non possono sbarcare i migranti a Malta

di ADIF – Associazione Diritti e Frontiere

1 – Il sequestro preventivo della nave di ProActiva Open Arms

Alla scadenza del termine di dieci giorni stabilito dalla legge per la convalida del sequestro preventivo disposto dalla Procura di Catania a carico della nave di Open Arms bloccata con parte dell’equipaggio a bordo nel porto di Pozzallo dal 18 marzo scorso, il Giudice delle indagini preliminari ha convalidato la misura del sequestro ma si è dichiarato incompetente rispetto all’accusa più grave formulata dalla Procura di Catania, che contestava il reato di associazione a delinquere finalizzata all’ingresso in Italia di immigrati irregolari.

Dopo un anno di inchieste sulle ONG avviate dalla Procura di Catania, e da altre procure siciliane, le contestazioni contenute nel provvedimento di sequestro erano relative ad un unico episodio che si sarebbe verificato in acque internazionali il 15 marzo scorso. Si è appreso successivamente che la stessa Procura avrebbe trasmesso al GIP di Catania altri elementi di indagine, da fare valere contro gli operatori umanitari della ONG spagnola, per eventi di ricerca e soccorso (SAR) avvenuti in precedenza, peraltro sotto il coordinamento del Comando centrale della Guardia costiera italiana.

La linea di attacco adottata dalla Procura di Catania è comunque stata sconfitta, ma per quanto concerne il solo reato di agevolazione dell’immigrazione irregolare (art. 12 del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998), quest’ultima accusa potrebbe essere riproposta anche dalla Procura di Ragusa, pure competente a stabilire, entro venti giorni, la eventuale proroga della misura del sequestro preventivo.

In mancanza di elementi probatori certi, che non risultano dagli atti di indagine oggetto delle prime contestazioni, si può ritenere che gli inquirenti siano ancora a caccia di elementi di informazione forniti da servizi di sicurezza, anche esteri, e da agenzie come Frontex o operazione come Eunavfor Med, che da tempo tracciano il movimento di tutte le navi in transito nelle acque internazionale a nord della costa libica. Lo stesso procuratore Zuccaro già un anno fa infatti aveva annunciato di essere in possesso di elementi probatori contro le ONG impegnate nei soccorsi nelle acque del Mediterraneo centrale, ma di non poterle utilizzare nella sede processuale per la fonte dalla quale provenivano.

Quanto riferito dall’ANSA in ordine alle motivazioni della convalida del sequestro preventivo da parte del GIP di Catania conferma l’inconsistenza delle accuse relative al mancato sbarco di migranti a Malta e documenta pesanti corresponsabilità italiane nell’ambito delle attività di intercettazione di imbarcazioni cariche di migranti presenti in acque internazionali e raggiunte dai libici prima che dai mezzi di soccorso europeo. Cooperazione operativa nel segno della missione NAURAS della Marina militare italiana presente a Tripoli con la nave Capri. Se questa collaborazione dovesse continuare e si verificassero altre tragedie in attesa che arrivino i mezzi navali libici allertati dagli italiani, si potrebbero configurare gravi responsabilità penali per il reato di omissione di soccorso.

2 – Le accuse rivolte agli operatori umanitari ed al coordinatore della ProActiva Open Arms

Gli accusati di associazione a delinquere finalizzata alla introduzione nel territorio italiano di stranieri irregolari sono Marc Reig Creus e Ana Isabel Montes Mier, indagati per i reati di cui agli artt. 416 comma 6 c.p. e 110, 12, commi 3 lett. a) e b), 3 bis, D.Lgs n. 286 del 1998 e successive modifiche, in concorso con Gerard Canals, coordinatore generale della Ong Proactiva Open Arms, per fatti “commessi in Ragusa il 17 marzo 2018”.

La prima ricostruzione dei fatti proposta dalla Procura di Catania è stata effettuata in base alla relazione sugli eventi SAR del 15 marzo 2018 redatta dalla Capitaneria di porto della Guardia costiera di Pozzallo ed ai primi atti di indagine della Squadra mobile di Ragusa (immagini tratte dai video consegnati dall’equipaggio e dichiarazioni rilasciate come SIT (Sommarie informazioni come testimoni informati dei fatti) dal capo missione e dal comandante della nave). Adesso il GIP di Catania ha riconosciuto che quegli interrogatori sono stati condotti in modo non rituale e ne ha annullato qualsiasi utilizzabilità in sede processuale.

Queste erano le contestazioni principali alla base dell’atto di accusa a carico degli operatori umanitari della ONG spagnola, confermate dal provvedimento del GIP di Catania e sui quali probabilmente si sta ancora cercando di aggiungere ulteriori elementi probatori.

– Benché avessero ricevuto ripetuti avvisi da parte dell’IMRCC di Roma, riportanti il messaggio che la Guardia costiera libica aveva «assunto la direzione delle operazioni di soccorso dei migranti, il capo missione e il comandante della nave procedevano comunque al soccorso, adducendo come scusa di aver perso il contatto radio con le lance di salvataggio che si trovavano 20 miglia più avanti».

– Gli indagati «decidevano arbitrariamente di continuare la ricerca e poi il soccorso degli eventi per i quali la Guardia costiera libica (le operazioni sono avvenute tutte in acque SAR libiche) aveva assunto il comando e quindi la responsabilità, chiedendo esplicitamente e per iscritto di non volere nessuno nella zona teatro dell’evento per garantire la sicurezza delle fasi di soccorso».

– «Durante le fasi di soccorso […]la Open Arms veniva raggiunta dalla motovedetta libica e dopo le concitate fasi di salvataggio […] l’equipaggio otteneva di poter soccorrere tutti i migranti grazie al consenso dei libici. Dopo aver soccorso complessivamente 218 migranti, la Open Arms alle ore 17.30 del 15 marzo 2018 faceva rotta verso nord e solo alle 19.30, in acque ancora internazionali, chiedeva il cd. POS all’IMRCC di Roma, che riferiva loro di non avere competenza in quanto il coordinamento delle operazioni SAR effettuate era dello stato della Libia, pertanto avrebbe dovuto richiedere il POS allo stato di bandiera della loro nave, ovvero la Spagna».

– «In data 16 marzo 2018 alle ore 7.30 circa, il medico di bordo informava […] che era necessario sbarcare con urgenza un neonato di 3 mesi e la madre, in quanto il piccolo versava in condizioni di salute critiche. Alle ore 9.20 circa, una volta giunti in acque SAR maltesi, la nave Open Arms otteneva dall’Isola dei Cavalieri l’autorizzazione a sbarcare i due migranti di cui sopra. Le operazioni di evacuazione terminavano alle ore 13.50 e le autorità maltesi chiedevano al capitano quali fossero le loro intenzioni, e lo stesso riferiva di procedere la navigazione lasciando il loro territorio».

– «Non vi è dubbio che i fatti per come analiticamente ricostruiti consentano di configurare a carico degli indagati il reato di immigrazione clandestina connesso al reato previsto e punito dall’art. 416 comma 6 c.p.».

– La condotta degli indagati «non può ritenersi scriminata, come previsto in caso di reale pericolo di vita», perché non sussiste l’inevitabilità del danno grave alle persone, visto che la Guardia costiera libica era in zona e assumeva il comando del coordinamento, come reiterato da Roma. «Il comportamento viola inoltre il Codice di condotta dettato dalle autorità italiane, siglato da Proactiva […] e comunque vincolante».

– Una volta giunti in acque SAR maltesi, «terminate le operazioni di evacuazione di un neonato di tre mesi e della madre di questo, hanno proceduto con la navigazione lasciando il porto» benché le autorità maltesi «avessero manifestato disponibilità ad occuparsi dello sbarco di tutti i migranti».

– L’MRCC di Roma ha suggerito l’approdo a Malta, ma gli indagati «hanno ostinatamente proceduto con la navigazione verso le acque italiane».

Secondo la Procura di Catania, a comprovare «l’insussistenza di una situazione di concreto pericolo di vita per i migranti, lo stesso comandante ha dichiarato di non aver avuto alcuna criticità a bordo. […] Gli indagati hanno agito con l’unico scopo di approdare in Italia».

Il reato di associazione per delinquere si darebbe, dunque, perché «l’appartenenza di un soggetto a un sodalizio criminale può essere ritenuta anche in base a un solo reato qualora sia provata la sussistenza del vincolo. Nel caso in esame, gli indagati operano professionalmente e strutturalmente per l’Ong Proactiva Open Arms e hanno inteso consapevolmente e reiteratamente disattendere il Codice di condotta».

«Vi sono i presupposti per applicare la misura cautelare reale del sequestro c.d. impeditivo, prevista dal primo comma dell’art. 321 c.p.p. […]. Il terzo necessario presupposto è quello del periculum libertatis, ossia del pericolo che la “libera disponibilità” del bene “possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato per cui si procede ovvero agevolare la commissione di altri reati”».

Alle ore 17 del 18 marzo scorso, sulla base di queste contestazioni, il pubblico ministero Fabio Regolo disponeva il sequestro preventivo dell’imbarcazione M/N Open Arms ormeggiata a Pozzallo, con affidamento in custodia allo stesso capitano della nave con la facoltà di permanenza a bordo dell’equipaggio. Adesso, dopo la decisione del GIP di Catania che ha affermato la incompetenza di questa sede ed ha cancellato l’accusa di associazione a delinquere, toccherà al Tribunale di Ragusa la competenza a decidere sulla ricorrenza degli estremi del sequestro preventivo. Per questa ragione occorre verificare i profili fin qui contestati in ordine al reato per il quale si chiederà di procedere alla procura di quest’ultima sede. Il reato di immigrazione clandestina previsto dall’art. 12 del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998.

3 – Inesistenza di un obbligo di consegna dei migranti soccorsi in acque internazionali alla “Guardia costiera libica”

Dopo l’iniziale assunzione della responsabilità di autorità di coordinamento dell’evento SAR in questione già nella giornata del 15 marzo scorso (circostanza documentata già agli atti del processo) è arrivato un comunicato della Guardia costiera italiana che, per la prima volta, attacca esplicitamente una nave umanitaria, precisando che la responsabilità per le attività di ricerca e salvataggio (SAR) in acque internazionali erano state trasferite in quella stessa giornata alla Guardia costiera libica. Secondo questo comunicato, dunque, la nave di Open Arms avrebbe dovuto obbedire agli ordini ricevuti dalla autorità SAR competente ( libica) e riconsegnare i naufraghi alle motovedette partite dalla Libia, evidentemente indirizzate sul luogo dell’incidente proprio dal comando IMRCC e dalle unità operative coordinate italo-libiche di avvistamento, in attività da febbraio di quest’anno, con le operazioni Naura della Marina militare e Themis di Frontex, che si possono avvalere del sistema satellitare Sea Horse, al quale partecipa anche personale proveniente da Tripoli.

Gli accordi stipulati tra il governo italiano e le autorità del governo di Tripoli il 2 febbraio del 2017 non possono consentire attività di respingimento o di collaborazione con la Guardia costiera libica (di Tripoli) che mettano a rischio la vita o l’incolumità fisica delle persone soccorse in acque internazionali.

In passato, in diverse occasioni, il Comando centrale della Guardia costiera italiana (IMRCC) aveva imposto alle navi umanitarie lo “stand by”, in attesa che arrivassero le unità della Guardia costiera libica, ad intercettare i gommoni carichi di migranti ed a riportare le persone “soccorse” nei centri lager dai quali erano fuggiti. Mai però si era registrata una dichiarazione unilaterale tanto esplicita da parte dell’IMRCC, con l’attribuzione alla Guardia costiera libica di una vera e propria responsabilità di coordinamento di una attività Sar in acque internazionali a tale distanza dalla costa della Libia (circa 50-70 miglia).

Questa la nota stampa della Centrale operativa della Guardia Costiera italiana.

16.03.2018

Nella giornata di ieri, la Centrale Operativa della Guardia Costiera di Roma ha ricevuto 2 segnalazioni relative a 2 unità in difficoltà con a bordo migranti nel Mediterraneo centrale. La Centrale Operativa informava tutte le MRCC prossime all’area in questione, avvisando nel contempo le unità navali in transito nella zona di interesse. In entrambi i casi il coordinamento veniva assunto dalla Guardia Costiera libica. Per entrambi gli eventi rispondeva l’ONG Open Arms, a conoscenza dell’assunzione del coordinamento da parte della Libia. La Open Arms traeva in salvo in totale 218 migranti (segue).

In realtà risulta in base alle comunicazioni radio registrate che il coordinamento delle attività SAR inizialmente assunto dalle autorità italiane fosse poi trasferito alle autorità libiche per una decisione del IMRRC di Roma. Mai in passato, del resto, un evento SAR era stato dichiarato da autorità libiche in una zona di mare in cui le stesse svolgono attività di pattugliamento con mezzi che non hanno neppure le dotazioni necessarie per procedere ad operazioni di soccorso per un numero elevato di naufraghi. Emerge quindi, dalla documentazione video, come il 15 marzo, dopo avere soccorso un altro gommone, durante l’ultimo salvataggio a 70 miglia dalla costa libica, quando le lance della nave spagnola Proactiva Open Arms avevano già imbarcato donne e bambini, è arrivata sul posto una motovedetta della guardia costiera libica. I libici si sono avvicinati a tutta velocità al gommone carico di donne e bambini e hanno ordinato agli spagnoli di consegnare i migranti, minacciando che altrimenti avrebbero aperto il fuoco. Un video diffuso dall’ong documenta questo momento.

Una parte dei migranti era già sui gommoni dell’ong Proactiva Open Arms. Riconsegnarli ai libici sarebbe stato un respingimento collettivo, una grave violazione dall’articolo 4 del quarto protocollo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo”.

4 – Non esiste un’area di ricerca e soccorso (SAR) controllata dalle autorità libiche

La Procura di Catania accusa il capitano della nave spagnola Marc Reig Creus e la capomissione Anabel Muntes Mier di aver deciso arbitrariamente di continuare la ricerca e poi il soccorso dei migranti nonostante la “Guardia costiera libica” avesse assunto il comando dell’operazione, chiedendo esplicitamente e per iscritto di non volere la presenza di navi di organizzazioni umanitarie, come la Open Arms, nella zona, “per garantire la sicurezza delle fasi di soccorso”. La procura di Catania, e quindi il Giudice delle indagini preliminari che ha convalidato il sequestro, hanno dato per scontato che tutte le operazioni siano avvenute in una zona SAR (di ricerca e soccorso) libica. Ad oggi non esiste tuttavia una zona di ricerca e soccorso libica.

Nel luglio del 2017 la Libia ha chiesto all’organizzazione marittima internazionale (Imo) l’assegnazione di un’area di ricerca e soccorso, ma questa richiesta è stata ritirata nel dicembre del 2017. Si deve ricordare ancora una volta che la cd. Guardia costiera libica, quando esce dalle proprie acque territoriali (12 miglia dalla costa), opera in una zona SAR (ricerca e salvataggio) che non è dunque riconosciuta a livello internazionale dall’IMO.

Questa situazione di stallo non può essere modificata da accordi derivanti da decisioni dell’agenzia europea Frontex, del tutto prive di rilevanza legislativa. Tutte le decisioni dell’agenzia Frontex rimangono soggette ai Regolamenti europei n.656 del 2014 e 1624 del 2016. Si tratta di atti che hanno immediata forza di legge su tutto il territorio europeo e devono essere osservati dalle autorità statali di tutti i paesi aderenti all’Unione Europea. In caso di contrasto delle decisioni dell’agenzia con quanto previsto dai regolamenti europei che hanno forza di legge si può ricorrere alla Corte di Giustizia di Lussemburgo.

In alcuni comunicati le autorità italiane sembrano adombrare un cambiamento recente avvenuto nella gestione delle zone SAR nel Mediterraneo centrale, dopo l’avvio dell’operazione Themis di Frontex. Occorre ricordare inoltre come la nuova operazione di Frontex denominata Themis, avviata il 2 febbraio scorso, in collegamento con l’operazione italiana Nauras, preveda un rafforzamento del livello di cooperazione operativa tra le unità navali libiche, quelle europee e quelle italiane, comprese anche nell’operazione Eunavfor Med. Adesso nel provvedimento del GIP di Catania la prova incontestabile del coinvolgimento della nave Capri della marina militare italiana nelle attività di intercettazione dei gommoni carichi di migranti in acque internazionali.

Appare sempre più evidente come con il “combinato effetto” dell’operazione Themis di Frontex, con le nuove linee operative adottate dal Comando delle guardia costiera italiana e con il pieno coinvolgimento delle autorità di Tripoli, ammesse anche a partecipare alla Centrale del coordinamento del sistema di avvistamento europeo SEA HORSE, e ancora con la consegna di motovedette e con il sistema unificato di Coordinamento operativo italo-libico ubicato a Tripoli, si tentando di aggirare il divieto di respingimenti collettivi sancito dal Quarto Protocollo (art.4) allegato alla CEDU. Una norma che ha già portato alla condanna dell’Italia sul caso Hirsi nel 2012, per i respingimenti diretti effettuati nel maggio del 2009 dalla Guardia di finanza con la motovedetta Bovienzo che, su ordini dell’allora ministro dell’interno Maroni, riconsegnava nel porto di Tripoli decine di profughi intercettati in acque internazionali.

5 – La collaborazione tra le autorità libiche e quelle italiane nelle intercettazioni in mare

Oggi piuttosto che a respingimenti diretti, si assiste alla delega delle attività di intercettazione in acque internazionali e di riconduzione a terra alla Guardia costiera che si definisce “libica” anche se è evidentemente in grado di controllare tutta la vasta zona di mare ricompresa in quella che si vorrebbe individuare come “zona SAR libica”. E tantomeno in grado di garantire un porto sicuro di sbarco. Eppure in documenti ufficiali della Guardia costiera italiana si dà chiaramente notizia del “progetto” di creare una zona SAR libica, che evidentemente anche per questa autorità ancora NON esiste.

Secondo quanto indicato nell’ultimo Rapporto annuale di attività della Guardia costiera italiana, “The Italian Govern is pursuing activities to allow Libyan Navy and Coast Guard to improve their operational capabilities; there are several on-going projects as, for example, one for the personnel training, and one for the provision of adequate equipment. In this respect, Libyan Authorities, are increasing their presence at sea, even if within specific areas; the 14th on December 2017, Libya filed a declaration at International Maritime Organization (IMO) about the declaration of a Search and Rescue Region (SRR), following a previous declaration of July, later cancelled by the December one. By the way, the presence in the area of Libyan units led,sometimes, to critical issues, due to communication difficulties with the naval on-duty assets; such were partially solved at the end of the year, when Italy launched operation “Nauras”. Non ci sono però fonti ufficiali dalle quali sia possibile desumere le linee operative di questa missione, salvo isolate testimonianze personali da Tripoli di alcuni suoi componenti, che comunicano sui social.

Gli accordi stipulati dal governo italiano con le autorità di Tripoli ( che non controllano più di un quarto del territorio libico) non prevedono una deroga, né potrebbero prevederla, alle Convenzioni internazionali di diritto del mare (Convenzione UNCLOS del 1982, Convenzione SAR del 1979 e Convenzione SOLAS, con relativi emendamenti) che stabiliscono le responsabilità di soccorso a seconda delle zone SAR e gli obblighi degli stati che intervengono in acque internazionali di garantire lo sbarco in un porto sicuro. Non sarà certo la presenza di alcuni operatori OIM o UNHCR in banchina a Tripoli, o le visite periodiche effettuate in alcuni centri di detenzione, a permettere di qualificare il porto di Abu Sittah o altri porti libici come “porti sicuri”. Sono troppo numerose le testimonianze di migranti che ribadiscono le violenze che subiscono nella fase di rientro a terra ed anche nei centri di detenzione in cui periodicamente viene consentito l’accesso dell’OIM o dell’UNHCR. Affidare i soccorsi alle autorità libiche costituisce un attentato alla vita, alla dignità ed all’integrità fisica dei migranti.

Ed è per questa ragione che l’IMO lo scorso dicembre rifiutava il riconoscimento di una zona SAR libica, chiedendo a Tripoli ulteriori requisiti che non sono stati ancora soddisfatti. In un suo recente Rapporto di attività è la stessa Guardia costiera italiana che prende atto di questa situazione e richiama il suo impegno di “mediazione” tra le autorità libiche e le ONG che svolgevano attività SAR, sotto il suo coordinamento, ma questo si omette, al fine di evitare incidenti. Adesso sembra che quella attività di “mediazione” che permetteva il soccorso delle ONG si sia bruscamente interrotta, con l’affidamento della responsabilità di coordinamento delle attività SAR alla Guardia costiera libica, pure in assenza del riconoscimento ufficiale di una zona SAR libica.

Non si comprende come il 16 marzo di quest’anno il Comando centrale della guardia costiera italiana (IMRCC) possa attribuire il coordinamento di operazioni di ricerca e soccorso (SAR) in acque internazionali, smentendo quanto riconosciuto fino a tre mesi fa, e condannando le persone abbandonate ai soccorsi dei libici alla riconduzione a terra in un porto che non può essere certamente qualificato come “place of safety”. E’ del resto noto, sempre alla stregua delle Convenzioni internazionali e delle prassi consuetudinarie, che la Guardia costiera italiana, in assenza di una zona SAR libica riconosciuta a livello internazionale, dovrebbe mantenere la responsabilità si Coordinamento SAR per le attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali, se raggiunto da una richiesta di soccorso, quando il paese titolare sulla carta non è in grado di garantire soccorsi tempestivi e luoghi di sbarco sicuri, purché gli interventi avvengano al di fuori delle acque territoriali libiche ( 12 miglia dalla costa). Anche se le stesse Convenzioni prevedono che, al fine di garantire la salvaguardia della vita umana in mare, il Comando italiano, sulla base di accordi regionali, possa chiamare unità libiche che si trovano in prossimità dei barconi da soccorrere, ma non certo quando queste persone sono già state soccorse e si trovano addirittura a bordo di un mezzo che, come nel caso di Open Arms e dei suoi battelli di servizio, espone la bandiera di uno stato dell’Unione Europea.

6 – La individuazione del luogo di sbarco in base al diritto internazionale

E, bene ricordare in proposito che, in base alle Convenzioni internazionali, come riconosciuto in passato dalla stessa Guardia costiera italiana, la individuazione del luogo di sbarco spetta all’autorità SAR indicata come responsabile delle attività di ricerca e soccorso.

L’Art. 98.2 della Convenzione UNCLOS prevede l’obbligo, per gli Stati Parte, di istituire e mantenere un adeguato ed effettivo servizio di ricerca e soccorso, relativo alla sicurezza in mare e, ove necessario, di sviluppare, in tale ambito, una cooperazione attraverso accordi regionali con gli Stati limitrofi, ponendo le basi per l’esecuzione di accordi multilaterali (quali, ad es., i Protocolli di Palermo del 2000) e bilaterali (quali, ad es., l’accordo tra Italia e Libia del 2007 ed il successivo Trattato di amicizia del 2008).

La Convenzione SAR del 1979 impone un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare ed il dovere di sbarcare i naufraghi in un porto sicuro (place of safety): a tal fine gli Stati membri dell’IMO (International Maritime Organization), nel 2004, hanno adottato emendamenti alle Convenzioni SOLAS e SAR, in base ai quali gli Stati parte devono coordinarsi e cooperare per far sì che i comandanti delle navi siano sollevati dagli obblighi di assistenza delle persone tratte in salvo, con una minima ulteriore deviazione, rispetto alla rotta prevista. Malta non ha accettato questi emendamenti. Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004) dispongono che il governo responsabile per la regione S.A.R. in cui sia avvenuto il recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito.

Dunque in questa ultima occasione era evidente che l’indicazione da parte del Comando Centrale di Roma (IMRCC) della Guardia costiera italiana, che designava come autorità SAR competente la Guardia costiera libica, equivaleva a consentire che il luogo di sbarco dei migranti soccorsi in acque internazionali, a 73 miglia dalla costa, fosse un porto libico.

Dopo alcuni episodi SAR coordinati dalla Guardia costiera italiana che aveva bloccato in stand by le navi umanitarie più vicine ai naufraghi da soccorrere ed atteso l’arrivo delle motovedette libiche, il salto di “qualità” di questi ultimi giorni, probabilmente legato, come si vedrà più avanti, all’avvio dell’operazione THEMIS di Frontex, è costituito dalla individuazione delle autorità libiche, la Guardia costiera di Tripoli, e non la singola unità reperibile vicino al luogo dei soccorsi, come autorità di coordinamento degli interventi di ricerca e soccorso, dunque in grado di decidere unilateralmente il luogo di sbarco (in Libia) delle persone intercettate in acque internazionali. Sembra del resto provato dalle risultanze dei rilievi grafici e satellitari che le motovedette libiche svolgano una costante attività di sorveglianza proprio in prossimità delle navi delle ONG impegnate nelle attività di ricerca e soccorso.

La presenza dell’UNHCR in alcuni dei porti di sbarco in Libia consente di assistere una minima parte dei migranti, quelli definiti in condizioni più vulnerabili, ma non incide sul destino riservato alla maggior parte di loro. Di fatto, con l’autorizzazione concessa ai guardiacoste libici di intervenire in acque internazionali, si verifica l’abbandono dei migranti e dei loro soccorritori alla esclusiva potestà d’imperio delle autorità libiche in armi, miliziani imbarcati a bordo delle motovedette donate dall’Italia, ma anche personale più specializzato che ha seguito i corsi di formazione a bordo delle unità militari italiane, della Guardia di finanza e dell’operazione europea Eunavfor Med. I risultati comunque non cambiano a seconda della qualità degli equipaggi libici, come si desume dalle modalità violente degli interventi e dall’elevato numero di vittime registrato negli ultimi mesi. Malgrado il calo delle partenze, la percentuale delle vittime è in costante aumento e per quanto riguarda le autorità italiane, occorre ricordare che qualunque ritardo nei soccorsi può essere imputabile sul piano penale a quelle autorità ed a quelle persone che lo hanno prodotto sotto giurisdizione italiana.

La posizione assunta dalla Guardia costiera italiana con il suo ultimo comunicato ha aperto anche un grave conflitto internazionale, adombrando che la responsabilità di individuare un luogo di sbarco, prima che alla Libia, potesse toccare a Malta, o alla Spagna, ed ha esposto gli operatori umanitari della nave spagnola di Pro Arms ad una attività di indagine da parte della polizia di Pozzallo, trattenuti per ore sotto interrogatorio all’interno del locale Hotspot subito dopo il loro attracco.

Non sono neppure ravvisabili violazioni del Codice di condotta imposto dal ministro Minniti alle ONG operanti nel Mediterraneo centrale lo scorso anno. Quel codice di condotta ha natura esclusivamente pattizia e non può costituire elemento per integrare una fattispecie penale. Per la prima volta il 15 marzo scorso l’Italia ha chiesto alla nave dell’ong spagnola di chiamare le autorità del suo stato di bandiera per chiedere un porto di sbarco. Nel codice di condotta, sottoscritto dalla Proactiva a luglio, è previsto “l’impegno” a informare lo stato di bandiera dei soccorsi che si stanno operando, ma questa comunicazione non è obbligatoria, ha affermato il senatore Luigi Manconi ricordando che il codice di condotta stipulato dal ministero dell’interno con alcune organizzazioni umanitarie non ha il valore di una legge, bensì “ha una natura pattizia”. “Io non credo che ci sia stata una violazione. Ma anche se fosse stato violato il codice di condotta, si tratterebbe non di un reato, ma di una violazione dell’accordo tra due parti, un patto che non ha nessun valore di legge”, ha concluso Manconi.

7 – Perché le navi delle ong non possono sbarcare i migranti a Malta

Secondo la Procura di Catania, il comandante della nave di Open Arms avrebbe dovuto chiedere alle autorità maltesi di sbarcare tutti i 218 migranti, soccorsi il 15 marzo scorso. Occorre ricordare al riguardo che Malta non ha una vera e propria zona di ricerca e soccorso, ma da anni dipende dal coordinamento italiano. “Malta inoltre non ha mai sottoscritto alcuni articoli della Convenzione di Amburgo del 1979 e della Convenzione Solas: queste norme prevedono che lo sbarco avvenga nel paese che ha coordinato i soccorsi, e da sempre in quel tratto di mare i soccorsi sono stati coordinati dall’Italia. Quindi per il diritto internazionale e per la prassi è sempre avvenuto che i soccorsi coordinati dall’Italia avessero assegnato un porto di sbarco italiano”.

E’ provato da anni che Malta non accetta lo sbarco di persone soccorse in acque internazionali, seppure all’interno della vastissima zona SAR che le Convenzioni internazionali e l’IMO le attribuiscono sulla carta, davvero soltanto sulla carta.

Nel mese di agosto del 2013, il caso della nave Salamis rifiutata da Malta perché intendeva sbarcare dei naufraghi salvati in acque internazionali fu il precedente delle stragi del 3 ottobre (a Lampedusa) e soprattutto dell’11 ottobre quando per un conflitto di competenze tra Malta ed autorità italiane i soccorsi tardarono e centinaia di persone morirono in mare. Oggi per quella strage è in corso un processo davanti al Tribunale penale di Roma.

Anche gli esperti che si riuniscono nell’ambito delle Nazioni Unite esprimono forti perplessità che Malta possa essere utilizzata come “point of disembarkation” dopo attività di ricerca e salvataggio condotte nelle acque del Mediterraneo centrale. Non risulta peraltro che negli ultimi anni navi dell’operazione Triton di Frontex, di Eunavfor Med o della Marina italiana abbiano sbarcato persone a Malta. Non si ravvisa davvero per quale motivo il comandante della Open Arms avrebbe dovuto forzare le autorità maltesi ad accettare lo sbarco in Italia di tutti i migranti che aveva a bordo, quando queste stesse autorità avevano consentito lo sbarco di sole due persone, una donna ed il suo bambino, soltanto per ragioni di emergenza sanitaria.

Già lo scorso anno le autorità maltesi avevano negato la possibilità di sbarco a migranti soccorsi in acque internazionali proprio da una nave di Pro Arms. Perché adesso si chiede ai rappresentanti di questa organizzazione di dimostrare che avrebbero chiesto lo sbarco a Malta per tutti i naufraghi soccorsi in acque internazionali il 15 marzo scorso?

Queste circostanze evidenziano la pretestuosità delle accuse che si muovono ad Open Arms e confermano come, malgrado la caduta dell’accusa di associazione a delinquere, persista la volontà di sanzionare penalmente un intervento di soccorso che si è svolto nel più assoluto rispetto di tutte le regole imposte dal Diritto internazionale del mare e dalla Convenzione di Ginevra del 1951.

Articolo di ADIF – Associazione Diritti e Frontiere reperibile su www.a-dif.org

(Contenuto concesso da ADIF a Mediterraneo Cronaca)

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