La fotografia completa del 51° rapporto Censis

Plauso agli italiani e severe bacchettate alla classe politica dirigente. Crescita presente ma poco distribuita. Aumentano i poveri e gli anziani: Diminuisce la fiducia verso la politica. Il sud fanalino di coda per sviluppo e nascite. Confusione nel corpo docente scolastico. Paese a pezzi con forte debito di risanamento grandi opere ed infrastrutture. Mancato il treno degli investimenti nelle nuove tecnologie e tarpate le ali allo sviluppo imprenditoriale hi-tech

“La politica è rimasta con il fiato corto, nell’incessante inseguimento di un quotidiano ‘mi piace’, nella personale verticalizzazione di presenza mediatica, distratta da ogni forma di articolazione degli obiettivi e dei metodi per conseguirli, con programmi di governo del Paese e delle città tanto annunciati quanto inattuati”. Questo uno dei passaggi nelle considerazioni del Censis sul 51° rapporto presentato oggi. Il riferimento all’inseguimento del consenso temporaneo, o estemporaneo, non è solo un rimprovero determinato dall’impietoso spettacolo a cui assistiamo ogni giorno in Tv e sui social messo in scena da leader politici e dagli spin doctor degli stessi. I dati prodotti dal rapporto 2017 del Censis sono impietosi e mostrano un Paese vecchio, sia anagraficamente che nel risultato delle scarse ed improduttive attività politiche degli ultimi anni, se non addirittura degli ultimi decenni. In compenso il Paese, quello degli italiani e della loro resilienza, peculiarità rara che contraddistingue la razza italica. In assenza di piani a lungo termine prodotti dalla politica nazionale e dal potere legislativo. Scrive il Censis: “La contrazione dei consumi e degli investimenti ha portato le imprese a concentrarsi quasi esclusivamente sulla ripresa di capacità competitiva, ma ha anche rafforzato tanti settori che nell’anno hanno accelerato in vigore e in fatturato e produttività ‒ dall’agroalimentare all’automazione, dai materiali per le costruzioni ai macchinari, dalla nautica all’automobile, dall’ingegneria al design, dal lusso alle assicurazioni”. Ed ancora: “Nel mondo articolato e complesso delle professioni, segnato da una riduzione delle opportunità e dei compensi senza precedenti nella storia italiana dal dopoguerra, si è affermata la convinzione che il futuro professionale dipende da una qualche forma di selezione e da reti basate sulle specializzazioni e sulle reti internazionali ‒ chi ha investito in questa direzione oggi raccoglie i primi frutti”.

Si sono indebolite le funzioni selettive esercitate dalla politica industriale o dalla politica di investimento dei grandi investitori istituzionali, dalle centrali di acquisto pubbliche o dai grandi committenti privati, e si sono “quasi azzerate le funzioni di innervamento da parte delle amministrazioni pubbliche dei principali processi di miglioramento tecnologico, con un ritardo nella digitalizzazione della macchina burocratica divenuto patologico, con una inefficiente dispersione dei tanti progetti di informatizzazione.” La fotografia del Paese, incollato a incrementi di Pil inesistenti, o pari allo “zerovirgola” quando si festeggia a Palazzo Chigi, è racchiusa perfettamente in questo severo periodo esaustivo e sintetico: “Siamo un Paese invecchiato che fatica ad affacciarsi sullo stesso mare di un continente di giovani; impotente di fronte a cambiamenti climatici e a eventi catastrofici che chiedono grandi risorse e grande impegno collettivo; ferito dai crolli di scuole, ponti, abitazioni a causa di una scarsa cultura della manutenzione; incerto sulla concreta possibilità di offrire pari opportunità al lavoro e all’imprenditoria femminile, immigrata, nelle aree a minore sviluppo; ambiguo nel dilagare di nuove tecnologie che spazzano via lavoro e redditi; incapace di vedere nel Mezzogiorno una riserva di ricchezza preziosa per tutti.” Basta questo ritratto per giustificare la disaffezione italiana alla politica ed ai partiti di cui si parla ogni volta che gli italiani vengono chiamati al voto. In un decennio questo Paese ha visto crescere i poveri del 165%, un dato da nazione per la quale si attiverebbero aiuti umanitari dagli Stati economicamente evoluti.

In questi anni l’innovazione tecnologica è stata il fattore propulsivo dominante su scala mondiale. La polarizzazione del lavoro determinata dalla domanda squilibrata verso professioni intellettuali ad alta competenza o verso servizi alla persona a bassa specializzazione professionale è una componente strutturale del progresso industriale dettato dall’innovazione. La fiducia verso il futuro cresce tra chi ha saputo stare dentro le linee di modernizzazione, meno tra chi subisce la fragilità del tessuto connettivo e di protezione sociale. “Il futuro si è incollato al presente”, scrive il Censis. “Ma proprio lo spazio che separa il presente dal futuro – prosegue il rapporto – è il luogo della crescita.” Manifatturiero, filiere italiane nelle catene globali del valore e turismo da record sono i baricentri della ripresa. Attraverso i consumi torna il primato dello stile di vita: ora gli italiani cercano un benessere soggettivo nella felicità quotidiana. Ma persistono trascinamenti inerziali da maneggiare con cura: il rimpicciolimento demografico del Paese, la povertà del capitale umano immigrato, la polarizzazione dell’occupazione che penalizza l’ex ceto medio. L’immaginario collettivo ha perso la forza propulsiva di una volta e non c’è un’agenda sociale condivisa. Ecco perché risentimento e nostalgia condizionano la domanda politica di chi è rimasto indietro.

La ripresa c’è, come confermano tutti gli indicatori economici. Ad eccezione degli investimenti pubblici: 32,5% in meno in termini reali nel 2016 rispetto all’ultimo anno prima della crisi. Dal 2008 la perdita di risorse pubbliche destinate a incrementare il capitale fisso cumulata anno dopo anno è di 74 miliardi di euro. È l’industria uno dei baricentri della ripresa. L’incremento del 2,3% della produzione industriale italiana nel primo semestre del 2017 è il migliore tra i principali Paesi europei (Germania e Spagna +2,1%, Regno Unito +1,9%, Francia +1,3%). E cresce al +4,1% nel terzo trimestre dell’anno. Il valore aggiunto per addetto nel manifatturiero è aumentato del 22,1% in sette anni, superando la produttività dei servizi. Inarrestabile è la capacità di esportare delle aziende del made in Italy: il saldo commerciale nel 2016 è pari a 99,6 miliardi di euro, quasi il doppio del saldo complessivo dell’export di beni (51,5 miliardi). La quota dell’Italia sull’export manifatturiero del mondo è oggi del 3,4%, con assoluti primati in alcuni comparti: 23,5% nei materiali da costruzione in terracotta, 13,2% nel cuoio lavorato, 12,2% nei prodotti da forno, 8,1% nelle calzature, 6,8% nei mobili, 6,4% nei macchinari. Gli italiani vivono un quieto andare nella ripresa dopo i duri anni del «taglia e sopravvivi». Tra il 2013 e il 2016 la spesa per i consumi delle famiglie è cresciuta complessivamente di 42,4 miliardi di euro (+4% in termini reali nei tre anni), segnando la risalita dopo il grande tonfo. Non sono soldi aggiuntivi per tornare sui passi dei consumi perduti, ma servono per accedere qui e ora a una buona qualità quotidiana della vita. Nell’ultimo anno gli italiani hanno speso 80 miliardi di euro per la ristorazione (+5% nel biennio 2014-2016), 29 miliardi per la cultura e il loisir (+3,8%), 25,1 miliardi per la cura e il benessere soggettivo (parrucchieri 11,3 miliardi, prodotti cosmetici 11,2 miliardi, trattamenti di bellezza 2,5 miliardi), 25 miliardi per alberghi (+7,2%), 6,4 miliardi per pacchetti vacanze (+10,2%). Dopo gli anni del severo scrutinio dei consumi, torna il primato dello stile di vita e del benessere soggettivo, dall’estetica al tempo libero. La somma delle piccole cose che contano genera la felicità quotidiana: è un coccolarsi di massa. Ecco perché il 78,2% degli italiani si dichiara molto o abbastanza soddisfatto della vita che conduce.

L’Italia è sempre più attrattiva per il turismo domestico e internazionale. Nel 2016 gli arrivi complessivi hanno sfiorato i 117 milioni e le presenze i 403 milioni, con una componente dei visitatori stranieri attestata al 49% del totale. Rispetto al 2008 si registra un incremento degli arrivi del 22,4% e dei pernottamenti del 7,8%. Cresce di più la componente straniera dei flussi turistici: +35,8% gli arrivi e +23,3% le presenze nel periodo considerato. E cresce di più la componente extralberghiera della ricettività: +45,2% di arrivi dal 2008 (addirittura +64,3% di arrivi stranieri) e +10,9% di presenze, a fronte rispettivamente del +17% e +6,4% riferito alla componente alberghiera. Sono proprio gli esercizi extralberghieri ad avere incrementato maggiormente il numero delle strutture attive (+36,9% dal 2008) e dei posti letto disponibili (+10,1%). Nel primo semestre del 2017 gli arrivi crescono di un ulteriore 4,8% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso e le presenze del 5,3%: in soli sei mesi abbiamo avuto 2,7 milioni di visitatori in più, con oltre 10 milioni di pernottamenti aggiuntivi. Negli ultimi anni la popolazione residente nei capoluoghi italiani è cresciuta di più rispetto alle cinture. Tra il 2012 e il 2017 nell’area romana gli abitanti del capoluogo sono aumentati del 9,9%, quelli dell’hinterland del 7,2%. A Milano l’incremento demografico è stato rispettivamente del 9% e del 4%, a Firenze del 7% e del 2,8%. L’andamento del valore aggiunto nelle città metropolitane nel periodo 2007-2014, anni in cui il Pil del Paese è calato di 7,8 punti percentuali, mostra che le grandi aree urbane del Sud (Napoli, Palermo e Catania) hanno subito un vero tracollo, perdendo circa il 14%. Le città metropolitane di Genova, Torino e Bari hanno registrato un calo superiore alla media nazionale (circa 10 punti percentuali). L’area romana (-8,6%) e quella veneziana (-7,2%) hanno avuto una dinamica negativa in linea con quella del Paese. Le città metropolitane di Firenze (-5,3%) e Bologna (-4,7%) hanno contenuto le perdite. L’area milanese ha registrato di gran lunga la performance migliore, con una contrazione del valore aggiunto di 2,8 punti. I divari del sistema urbano si ampliano.

Nella ripresa persistono trascinamenti inerziali da maneggiare con cura. Non si è distribuito il dividendo sociale della ripresa economica e il blocco della mobilità sociale crea rancore. L’87,3% degli italiani appartenenti al ceto popolare pensa che sia difficile salire nella scala sociale, come l’83,5% del ceto medio e anche il 71,4% del ceto benestante. Pensano che al contrario sia facile scivolare in basso nella scala sociale il 71,5% del ceto popolare, il 65,4% del ceto medio, il 62,1% dei più abbienti. La paura del declassamento è il nuovo fantasma sociale. Ed è una componente costitutiva della psicologia dei millennials: l’87,3% di loro pensa che sia molto difficile l’ascesa sociale e il 69,3% che al contrario sia molto facile il capitombolo in basso. Allora si rimarcano le distanze dagli altri: il 66,2% dei genitori italiani si dice contrario all’eventualità che la propria figlia sposi una persona di religione islamica, il 48,1% una più anziana di vent’anni, il 42,4% una dello stesso sesso, il 41,4% un immigrato, il 27,2% un asiatico, il 26,8% una persona che ha già figli, il 26% una con un livello di istruzione inferiore, il 25,6% una di origine africana, il 14,1% una con una condizione economica più bassa. E l’immigrazione evoca sentimenti negativi nel 59% degli italiani, con valori più alti quando si scende nella scala sociale: il 72% tra le casalinghe, il 71% tra i disoccupati, il 63% tra gli operai. La demografia italiana è segnata dalla riduzione della natalità, dall’invecchiamento e dal calo della popolazione. Per il secondo anno consecutivo, nel 2016 la popolazione è diminuita di 76.106 persone, dopo che nel 2015 si era ridotta di 130.061. Il tasso di natalità si è fermato a 7,8 per 1.000 residenti, segnando un nuovo minimo storico di bambini nati (solo 473.438). La compensazione assicurata dalla maggiore fertilità delle donne straniere si è ridotta. A fronte di un numero medio di 1,26 figli per donna italiana, il dato delle straniere è di 1,97, ma era di 2,43 nel 2010. Nel 1991 i giovani di 0-34 anni (26,7 milioni) rappresentavano il 47,1% della popolazione, nel 2017 sono scesi al 34,3% (20,8 milioni). Pesa anche la spinta verso l’estero: i trasferimenti dei cittadini italiani nel 2016 sono stati 114.512, triplicati rispetto al 2010 (39.545). Il ricambio generazionale non viene assicurato e il Paese invecchia: gli over 64 anni superano i 13,5 milioni (il 22,3% della popolazione). E le previsioni annunciano oltre 3 milioni di anziani in più già nel 2032, quando saranno il 28,2% della popolazione complessiva.

Nel nostro Paese il 14,7% della popolazione di 15-74 anni è in possesso della laurea. L’incidenza tra gli stranieri non comunitari scende all’11,8%. Ma il dato medio europeo degli extracomunitari con istruzione terziaria è pari al 28,5%: 21,4% in Spagna, 26,7% in Francia, 50,6% nel Regno Unito, 58,5% in Irlanda. Gli studenti stranieri iscritti nelle università italiane sono solo il 4,4% del totale, in Germania il 7,7%, in Francia il 9,9%, nel Regno Unito il 18,5%. Nel 2016, su 52.056 nuovi permessi rilasciati nell’Unione europea a lavoratori qualificati, titolari di Carta blu e ricercatori, quelli emessi in Italia sono stati solo 1.288 (appena il 2,5% del totale), nei Paesi Bassi 11.645, in Germania 6.570, in Francia 5.889, in Spagna 3.661, nel Regno Unito 1.602. L’Italia attrae soprattutto giovani migranti scarsamente scolarizzati. Il 90% degli stranieri non comunitari che nel nostro Paese lavorano alle dipendenze fa l’operaio (il 41% tra gli italiani), l’8,9% l’impiegato (il 48% tra gli italiani). Manca una visione strategica che, al di là dell’emergenza e della prima accoglienza, valuti nel medio-lungo periodo il tema della povertà dei livelli di formazione e di competenze del capitale umano che attraiamo. Chi ha vinto in questi anni nella ripresa dell’occupazione si trova in cima e nel fondo della piramide professionale. Nel periodo 2011-2016 operai e artigiani diminuiscono dell’11%, gli impiegati del 3,9%. Le professioni intellettuali invece crescono dell’11,4% e, all’opposto, aumentano gli addetti alle vendite e ai servizi personali (+10,2%) e il personale non qualificato (+11,9%). Nell’ultimo anno l’incremento di occupazione più rilevante riguarda gli addetti allo spostamento e alla consegna delle merci (+11,4%) nella delivery economy. Nella ricomposizione della piramide professionale aumentano dunque le distanze tra l’area non qualificata e il vertice. E se tra il 2006 e il 2016 il numero complessivo dei liberi professionisti è aumentato del 26,2%, quelli con meno di 40 anni sono diminuiti del 4,4% (circa 20.000 in meno). La quota di giovani professionisti sul totale è scesa al 31,3%: 10 punti in meno in dieci anni.

Un costo umano di oltre 10.000 vittime e danni economici per 290 miliardi di euro (circa 4 miliardi all’anno) è la stima per i fenomeni sismici, franosi e alluvionali degli ultimi settant’anni. Per ridurre il rischio idrogeologico esiste un quadro analitico di interventi (oltre 9.000) individuati dalle Regioni e una stima delle risorse necessarie pari a 26 miliardi di euro, ma l’impegno finanziario dello Stato su questo fronte è attualmente di circa 500 milioni di euro all’anno. L’adeguamento sismico del patrimonio edilizio residenziale costerebbe tra 70 (zone con pericolosità media e alta) e 100 miliardi di euro (comprese le zone con pericolosità bassa). Ci sono poi le perdite della rete idrica nazionale, pari al 39%, che arrivano al 59,3% a Cagliari, al 54,6% a Palermo, al 54,1% a Messina, al 52,3% a Bari, al 51,6% a Catania, al 44,1% a Roma. L’immaginario collettivo è l’insieme di valori e simboli in grado di plasmare le aspirazioni individuali e i percorsi esistenziali di ciascuno, quindi di definire un’agenda sociale condivisa. Nell’Italia del miracolo economico il ciclo espansivo era accompagnato da miti positivi che fungevano da motore alla crescita economica e identitaria della nazione. Ma adesso l’immaginario collettivo ha perso forza propulsiva. Nelle fasce d’età più giovani (gli under 30) i vecchi miti appaiono consumati e stinti, soppiantati dalle nuove icone della contemporaneità. Nella mappa del nuovo immaginario i social network si posizionano al primo posto (32,7%), poi resiste il mito del «posto fisso» (29,9%), però seguito a breve dallo smartphone (26,9%), dalla cura del corpo (i tatuaggi e la chirurgia estetica: 23,1%) e dal selfie (21,6%), prima della casa di proprietà (17,9%), del buon titolo di studio come strumento per accedere ai processi di ascesa sociale (14,9%) e dell’automobile nuova come oggetto del desiderio (7,4%). Nella composizione del nuovo immaginario collettivo il cinema è meno influente di un tempo (appena il 2,1% delle indicazioni) rispetto al ruolo egemonico conquistato dai social network (27,1%) e più in generale da internet (26,6%). Non è polvere di immaginario, ma lo spirito dei tempi: il punto da cui ripartire per ritrovare una direzione di marcia comune.

L’onda di sfiducia che ha investito la politica e le istituzioni non perdona nessuno: l’84% degli italiani non ha fiducia nei partiti politici, il 78% nel Governo, il 76% nel Parlamento, il 70% nelle istituzioni locali, Regioni e Comuni. Il 60% è insoddisfatto di come funziona la democrazia nel nostro Paese, il 64% è convinto che la voce del cittadino non conti nulla, il 75% giudica negativamente la fornitura dei servizi pubblici. Non sorprende che i gruppi sociali più destrutturati dalla crisi, dalla rivoluzione tecnologica e dai processi della globalizzazione siano anche i più sensibili alle sirene del populismo e del sovranismo. L’astioso impoverimento del linguaggio rivela non solo il rigetto del ceto dirigente, ma anche la richiesta di attenzione da parte di soggetti che si sentono esclusi dalla dialettica socio-politica. Nell’annuale rilevazione del Censis su oltre 1.000 dirigenti scolastici emerge il prevalere tra i docenti di disorientamento (39,8% delle scuole) e demotivazione (21,8%), e solo nel 20,8% di un atteggiamento ottimistico. Per i dirigenti intervistati, tra gli aspetti della loro professione che negli ultimi anni sono stati particolarmente gravosi, al primo posto si collocano quelli normativi e burocratici. In particolare, in un range che va da 1=per niente gravoso a 10=molto gravoso hanno assegnato un punteggio medio di 8,30 al nodo critico dell’applicazione e delle responsabilità relative a normative generali, quali privacy, trasparenza amministrativa e siti web, anticorruzione e soprattutto in materia di sicurezza e edilizia scolastica. Il 68,8% dei dirigenti ritiene necessario affrontare urgentemente il nodo economico, chiedendo un incremento delle retribuzioni in linea con il loro ruolo di dirigenti pubblici. Il 37,5% avanza la richiesta di un supporto organizzativo e amministrativo per l’applicazione delle procedure per la dematerializzazione e del Codice dell’Amministrazione Digitale. Dell’annuale indagine del Censis su dirigenti scolastici emerge che su 1.048 scuole ben il 93,2% aderisce ad almeno una rete di scopo (il 56,1% è inserita in più di due reti). La rete di ambito è vista soprattutto come un’opportunità per far circolare tra le scuole aderenti le buone pratiche in atto (48,3%), il 36,7% dei dirigenti sottolinea che permette di fare economie di scala, il 36,6% che è un supporto al miglioramento di pratiche educative della scuola e il 33,3% che agevola l’accesso ai finanziamenti. Il valore aggiunto delle reti di scopo è, invece, individuato nel loro supporto al miglioramento della didattica e delle pratiche educative (52,9%) e alla circolazione di buone pratiche (45,5%). Ne consegue che interesse e grado di utilità percepiti siano molto alti per quelle con obiettivi di innovazione dell’organizzazione e delle metodologie didattiche. In particolare, il 51,6% dei dirigenti intervistati ritiene molto utili e interessanti per la propria realtà scolastica le reti per l’introduzione di nuove metodologie didattiche e un altro 39,8% le reputa comunque abbastanza utili.

Tra il 2008 e il 2013 la popolazione con almeno 50 anni è aumentata di 1.795.000 unità e tra il 2013 e il 2016 di altri 1.176.000. Nello stesso tempo l’occupazione degli over 50 segna un aumento complessivo di circa 1.300.000 unità, con un 20,1% in più nel periodo compreso 2008-2013 e un ulteriore +16% nel periodo 2013-2016. Si arriva così a 7.768.000 occupati con almeno 50 anni. La catena degli effetti dell’invecchiamento della popolazione non risparmia l’area delle persone anziane in cerca di occupazione. Nel 2016 i disoccupati con 50 anni e oltre hanno raggiunto la cifra di 501.000, pari a 17 disoccupati su 100 totali. Se tra il 2013 e il 2016 il numero delle persone in cerca di occupazione si è ridotto di 57.000 unità, con un decremento dell’1,8%, quello dei disoccupati con almeno 50 anni è invece aumentato di 60.000 unità, con una crescita del 13,7%. I dati più recenti, riferiti al secondo trimestre di quest’anno, registrano invece un aumento di 336.000 occupati over 50 rispetto al secondo trimestre del 2016 (+4,3%), portando il totale a 8.107.000. Il quadro dell’invecchiamento dell’occupazione è fortemente condizionato dalle scelte di contenimento della spesa previdenziale e dallo spostamento in avanti per decreto dell’accesso alla pensione. Nel 2015 i beneficiari delle politiche attive del lavoro sono stati pari, secondo l’Inps, a poco meno di 1,5 milioni. I beneficiari con almeno 50 anni sono stati 168.671, pari all’11,5% del totale degli assistiti. L’80% degli avvocati e il 74% dei consulenti del lavoro indica nel mancato o ritardato pagamento della prestazione da parte di clienti il principale problema che il professionista ha dovuto affrontare negli ultimi due anni svolgendo la propria attività. Seguono per entrambe le professioni il peso crescente dei costi sostenuti per motivi burocratici (il 66% degli avvocati, il 47% dei consulenti), mentre al terzo posto gli avvocati collocano il calo della domanda (45%) e i consulenti l’aumento della concorrenza sleale da parte di chi lavora in nero o chi offre prestazioni e servizi professionali pur non avendo le idonee qualifiche (40%).

Una evidenza dello stato di disagio in cui si trova il mondo delle libere professioni è del resto fornito dall’andamento di lungo periodo della quota di giovani sul totale dei liberi professionisti. Complice certamente la crisi, tra il 2006 e il 2016 sembra appannarsi l’attrattività della libera professione: il numero dei liberi professionisti under 40 in Italia si è ridotto di circa 10 punti percentuali, mentre in termini assoluti, a fine periodo, si registrano 20.000 unità in meno. La variazione negativa sul totale degli occupati con meno di 40 anni è del 27,1%, mentre tra il 2013 e il 2016 si assiste a un deciso rallentamento nella tendenza, fino a quell’anno crescente, della quota dei giovani professionisti sul totale dei giovani occupati (intorno a 5,4 professionisti su 100 giovani occupati). Nel 2016 le persone non autosufficienti sono 3.378.000 (l’8% della popolazione, con quote pari al 7% nel Sud, al 5,8% al Centro, al 5,5% al Nord-Est e al 4,7% al Nord-Ovest). L’80,8% ha oltre 65 anni di età. Alla luce degli attuali trend, si stima che nel 2031 le persone non autosufficienti saranno 4.666.000 e l’area più a rischio è il Sud, con un incremento previsto del 10,5%. I dati dell’assistenza domiciliare documentano una rete ancora insufficiente e la residenzialità continua a essere una sorta di cenerentola dell’assistenza, con 273.000 ospiti. E nell’ultimo anno le famiglie con persone non autosufficienti hanno sperimentato maggiori difficoltà nel sostenere le spese sanitarie (il 51% rispetto al 31,5% del resto delle famiglie). Né trovano consenso tra gli italiani soluzioni come fornire l’assistenza ai non autosufficienti con i robot (il 73% degli over 75 anni è assolutamente contrario).

Nel 2017 la tv tradizionale (digitale terrestre) cede qualche telespettatore (il 92,2% di utenza, con una riduzione del 3,3% rispetto al 2016). La tv satellitare si è stabilizzata intorno a quote di utenza che si avvicinano alla metà degli italiani (il 43,5% nel 2017), cresce la tv via internet (web tv e smart tv hanno il 26,8% di utenza, +2,4% in un anno) ed è decollata la mobile tv, che ha raddoppiato in un anno i suoi utilizzatori (passati dall’11,2% al 22,1%). La radio tradizionale perde 4 punti percentuali di utenza, scendendo al 59,1% di italiani radioascoltatori. La flessione è compensata però dall’ascolto delle trasmissioni radio via internet attraverso il pc (utenza al 18,6%, +4,1% in un anno). L’autoradio rimane sempre lo strumento preferito dagli italiani per ascoltare le trasmissioni che vanno in onda in diretta (utenza al 70,2%). Lo smartphone è utilizzato dal 69,6% degli italiani (la quota era solo del 15% nel 2009). La crescita di internet ha rallentato il ritmo, ma prosegue: nel 2017 ha raggiunto una penetrazione pari al 75,2% degli italiani, con una differenza positiva dell’1,5% rispetto al 2016. La grande novità è rappresentata dalle piattaforme che diffondono servizi digitali video e audio, come Netflix o Spotify. Oggi l’11,1% degli italiani guarda programmi dalle piattaforme video e il 10,4% ascolta musica da quelle audio. I giornali continuano a soffrire per la mancata integrazione nel mondo della comunicazione digitale: oggi solo il 35,8% degli italiani li legge. Per i periodici nell’ultimo anno si è registrata una piccola ripresa, sia dei settimanali (il 31% di utenza, +1,8%), sia dei mensili (il 26,8% di utenza, +2,1%). Ma oggi meno della metà della popolazione (il 42,9%) legge libri (nel 2007 il dato si attestava al 59,4%). Il ruolo degli e-book resta poco incisivo (dal 2,9% di utenza nel 2007 al 9,6% nel 2017). Invece gli utenti di WhatsApp (il 65,7% degli italiani) coincidono praticamente con le persone che usano lo smartphone, mentre circa la metà degli italiani usa i due social network più popolari: Facebook (56,2%) e YouTube (49,6%). Importante è il passo in avanti compiuto da Instagram, che in due anni ha raddoppiato la sua utenza (nel 2015 era al 9,8% e oggi è al 21%), mentre Twitter resta attestato al 13,6%. Parallelamente alla diffusione su larga scala dei device mobili, insieme all’ampliamento delle attività che si possono svolgere grazie ad app e siti web con un notevole risparmio di tempo e di denaro, negli ultimi anni i comportamenti degli adulti di età compresa tra i 30 e i 44 anni sono diventati sempre più simili a quelli degli under 30. La quota degli italiani utenti di internet che guardano film online aumenta di oltre 4 punti percentuali rispetto al 2015, passando dal 19,5% all’attuale 24%, spingendosi fino al 47,4% nel caso degli under 30. Anche ascoltare la musica attraverso il web è una pratica comune al 39,4% degli utenti (tra gli under 30 si sale al 59,9%). Tra le abitudini che si vanno consolidando ci sono le telefonate attraverso le connessioni web (22,9%). Il 54,2% degli internauti usa la rete per trovare una strada o una località, la ricerca di informazioni su aziende, prodotti e servizi coinvolge il 52,7%. Il 37,7% degli utenti di internet fa e-commerce (7 punti percentuali in più in due anni), il 39,7% l’home banking. Decidere dove passare le vacanze è un’attività realizzata con l’ausilio della rete dal 15,8% degli internauti, il 6,5% in più rispetto a due anni fa. Crescono, anche se in maniera non ancora soddisfacente, gli utenti che hanno sbrigato pratiche con uffici pubblici attraverso un clic: passano dal 12,4% del 2015 all’attuale 14,9%. Prenotare una visita medica usando il web non è ancora invece una prassi abituale: solo l’8% degli utenti di internet lo fa (ma erano appena il 5,1% nel 2015).

Gli italiani che leggono regolarmente i quotidiani a stampa per informarsi durante la settimana si sono ridotti al 14,2% nel 2017 (e ad appena il 5,6% tra i giovani). Al contrario, i social network hanno registrato una forte espansione anche come fonti di informazione: Facebook è utilizzato dal 35% degli italiani (e la percentuale sale al 48,8% tra i giovani). In effetti, nel giro di quindici anni le copie di quotidiani vendute giornalmente sono passate da quasi 6 milioni, nel 2000, a meno di 3 milioni, nel 2016, con una perdita di oltre il 50%. Ma i tg restano ancora il mezzo d’informazione più utilizzato dagli italiani (60,6%). Poi ci sono i motori di ricerca su internet, come Google, che vengono utilizzati dal 21,8% della popolazione per informarsi, e YouTube (12,6%). A più della metà degli utenti di internet italiani è capitato di dare credito a notizie false circolate in rete (spesso al 7,4%, qualche volta al 45,3%, per un totale pari al 52,7%). La percentuale scende di poco, anche se rimane sempre al di sopra della metà, per le persone più istruite (51,9%), ma sale fino al 58,8% tra i più giovani, che dichiarano di crederci spesso nel 12,3% dei casi. Per tre quarti degli italiani (77,8%) quello delle fake news è un fenomeno pericoloso. Soprattutto le persone più istruite ritengono che le bugie sul web vengono create ad arte per inquinare il dibattito pubblico (74,1%) e che favoriscono il populismo (69,4%). I lettori di libri a stampa, che nel 2013 erano il 52,1% della popolazione, sono scesi nel 2017 al 42,9%. Il 9,6% degli italiani legge gli e-book: sono in aumento rispetto al 5,2% del 2013, ma non abbastanza. Nel 2006 ad avere una dieta mediatica povera di stampa era il 33,9% degli italiani, mentre nel 2017 il dato è salito al 55,1%. Ciò significa che si sta perdendo sempre di più la capacità di decodificare un testo scritto che richiede dosi di attenzione prolungata nel tempo, esclusività percettiva, consequenzialità logica. Questo è ancora più evidente se si considera che sono aumentate le persone che usano tutti i media, compreso internet, ad eccezione dei mezzi a stampa, passate in dieci anni dal 5,7% al 34,5% del totale. A sostenere l’editoria in Italia sono soprattutto le donne, in particolare quelle più istruite, con il 61,7% di lettrici diplomate o laureate.

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