Una montagna di merda (e non è la mafia)

Editoriale di Mauro Seminara

Chiunque ha il diritto di prendere una sonora cantonata, anche Umberto Eco. Secondo il filosofo e scrittore di fama internazionale “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”. Queste le parole pronunciate, già due anni or sono, durante il conferimento della laurea honoris causa in Comunicazione e Cultura dei media. Raramente una persona dello spessore di Eco si è trovata così lontana dalla comprensione del mondo reale.
Iniziava così il primo editoriale pubblicato quasi sei mesi addietro su Mediterraneo Cronaca. Oggi, dopo un semestre, il problema è ancora più attuale. Ci sono le fake news, perché chiamarle semplicemente bufale non è trendy, e c’è la plebaglia che si esprime sui social. E purtroppo oggi non sono più tollerati. Non possono e non devono esistere le bufale in rete e non si tollerano i plebei che esprimono opinioni sui propri personali profili social. Certo, ci sono quelli che le idiozie le propinano in altrui conversazioni e sulle altrui bacheche; ma la categoria degli idioti maleducati esula dalla presente analisi. Non certo per convenienza dello scrivente, ma solo perché il social più trafficato – Facebook – permette ai proprietari di pagina impostazioni di restrizione che rendono questo ambiente virtuale molto simile al salotto di casa propria. Su Facebook si può decidere che solo i propri amici possano vedere ciò che viene pubblicato e, volendo, che neanche questi possano condividere il post. Se però si cerca visibilità e si apre il salotto al mondo interno permettendo a chiunque di condividere, che siano amici o amici di amici, ci sta anche che si possa incorrere in interazioni non desiderate. Si, “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività”. Ma prima Eco non andava certo in giro per i bar a sentire le chiacchiere dei piccoli pensatori ignoranti durante un dopolavoro alticcio. Perché quindi un celebre intellettuale, osannato dalle penne più ardite, dovrebbe preoccuparsi di cosa scrivono legioni di imbecilli sui social è, e probabilmente rimarrà, un mistero. Ancor più astruso da risolvere è il motivo per cui solo i non imbecilli dovrebbero possedere il democratico diritto di opinione. Idee che non vengono pubblicate nella colonna dedicata all’editoriale del Corriere o in una raccolta di saggi pubblicata da Feltrinelli ma che vivono nell’ambiente in cui vive chi le esprime, in teoria non dovrebbero far male a nessuno. L’ascolto, o la lettura, di simili idee è niente più che una questione di curiosità. C’è chi pretende di confrontarsi solo con i suoi pari e chi non disdegna l’ampliare i propri interessi anche fuori da elitarie cerchie. La logica antidemocratica del “se non sei, non puoi e non devi” emerge sempre più dalle frustrazioni dei giornalisti che oggi non rappresentano più l’unica fonte del quotidiano sapere. Questo è il nocciolo della questione scartata, snobbata, dal grande Eco: il web ed i social hanno concesso democrazia culturale al popolo che prima poteva solo leggere le altrui opinioni stampate, scripta manent, affidando invece le proprie solo all’opposto verba volant.
Quotidiani da oltre centomila copie in Italia non ce ne sono più. Molti non raggiungono neanche la tiratura di ventimila copie, e spesso un post, banale, “popolare”, di una persona qualunque sul social Facebook riceve più interazioni di un articolo edito su un quotidiano con cent’anni di onorata carriera sulle spalle. Ci si dovrà fare l’abitudine, visto che quando se ne poteva discutere è stato snobbato l’argomento dai più lungimiranti redattori delle grandi testate giornalistiche ed oggi appaiono tutti dei dinosauri che non sanno più di cosa stiamo parlando e cosa sono quegli strumenti che li hanno rapinati della ostentata autorevolezza. La rete oggi è un enorme contenitore in cui si può trovare di tutto ed espresso da chiunque, compreso questo editoriale scritto per il piccolo pubblico di lettori che ogni giorno sfogliano virtualmente Mediterraneo Cronaca. Basta saper cercare, e scartare; come in una fornitissima libreria in cui si può imbattere in romanzi destinati ad entrare nella storia della letteratura oppure incappare in carta sporcata con banalità autoprodotta o quasi. La capacità di cercare e scartare, oggi, nella rete, non è diversa da quella che hanno affrontato altre generazioni quando la stampa in serie di testi e immagini ha inondato edicole oltre che librerie. Cronaca Vera è stato fondato nel 1969, L’Espresso nel 1955; se il primo lo ricordano appena i cinquantenni che lo sfogliavano dal barbiere attratti dalle copertine osé, mentre il secondo è quello che ancora oggi tutti conoscono e che innalza la qualità media di ciò che si può trovare in una edicola, il motivo non è certo un corso di riconoscimento delle fake news propinato ai giovani studenti nelle scuole.
Le bufale, suona più familiare. Ancora più familiare suona “le bugie”. E tutti sanno che le bugie hanno le gambe corte. Così dicevano un tempo, non gli Eco ed i Montanelli ma i pastori e gli agricoltori che in qualche caso avevano conseguito perfino la quinta elementare. La frenetica e compulsiva lotta contro il mostro d’oltreoceano detto fake news – almeno questo è genuino, non è una fobia né una campagna di origine italiana – ha qualcosa in comune con il democratico diritto d’espressione che anche chi sa di non essere Luigi Pirandello dovrebbe avere. Se poi l’idiozia scritta dall’imbecille di turno non interessa a nessuno, perché la prestigiosa firma di un giornale si dovrebbe preoccupare di quanti imbecilli scrivono idiozie? Perché, in altri termini, dovrebbero sentirsi minacciati? Parallelamente, la classe politica teme che una massiccia artata campagna di fake news possa influire negativamente sull’esito delle consultazioni elettorali. “Perché mai dovreste preoccuparvi?”, verrebbe da chiedere a quei partiti che negli ultimi decenni si sono onorevolmente avvicendati al Governo scambiandosi poltrone senza mai mollare ruoli verticistici nella dirigenza del Paese, sempre gli stessi, mentre l’Italia precipitava in un abisso sociale. Una bufala non potrebbe mai intaccare chi è cittadino al di sopra di ogni sospetto e politico dai conclamati valori. Viceversa, che siano bufale o indiscrezioni a offendere, torbidi individui o melmosi partiti potrebbero uscirne devastati se colpiti da un’onda di condivisioni su social media. Uno studio demoscopico di questi giorni ha dimostrato che oggi, a distanza di un anno dal tormentone che ha martellato gli italiani per mesi, se si ripetesse il referendum sulla riforma costituzionale vincerebbe ancora il No. Ma sia in Italia che al di la dell’oceano si preferisce sostenere che le fake news diffuse sui social hanno determinato la sconfitta dei riformisti. Per di più pare piaccia sostenere che a manipolare l’opinione pubblica italiana a mezzo “tzunami social” di bufale sia stato il “puparo” russo che non voleva vedere l’Italia migliorarsi e snellire la propria farraginosa burocrazia. E se invece, semplicemente, il popolo italiano avesse percepito quell’olezzo di bufala nella campagna per il Si alla riforma invece che nelle fantomatiche influenze estranee veicolate con fake news? Se i lagnanti sottomessi – e sottopagati dagli editori-politici o politicizzati – giornalisti con contratto fossero semplicemente gelosi del monopolio del verbo, e i protettori del popolo dall’orrenda minaccia delle fake news fossero invece il nemico che vuol censurare la libertà di espressione, sarebbe tutta questa epocale diatriba culturale un enorme montagna di merda? Un gruppo di amici al bar racconta barzellette e spara battute e freddure, ridendo fragorosamente tra una e l’altra, magari sganasciandosi all’idea visionaria e goliardica di politici a lutto per la morte del capo dei capi; entrano nel bar degli individui che impongono il silenzio e sanzioni a chi rideva ed arresta l’autore della battutaccia: che colore credete potrebbero essere le camicie di questi censori? Trovate le differenze.

Informazioni su Mauro Seminara 705 Articoli
Giornalista palermitano, classe '74, cresce professionalmente come fotoreporter e videoreporter maturando sulla cronaca dalla prima linea. Dopo anni di esperienza sul campo passa alla scrittura sentendo l'esigenza di raccontare i fatti in prima persona e senza condizionamenti. Ha collaborato con Il Giornale di Sicilia ed altre testate nazionali per la carta stampata. Negli anni ha lavorato con le agenzie di stampa internazionali Thomson Reuters, Agence France-Press, Associated Press, Ansa; per i telegiornali nazionali Rai, Mediaset, La7, Sky e per vari telegiornali nazionali esteri. Si trasferisce nel 2006 a Lampedusa per seguire il crescente fenomeno migratorio che interessava l'isola pelagica e vi rimane fino al 2020. Per anni documenta la migrazione nel Mediterraneo centrale dal mare, dal cielo e da terra come freelance per le maggiori testate ed agenzie nazionali ed internazionali. Nel 2014 gli viene conferito un riconoscimento per meriti professionali al "Premio di giornalismo Mario Francese". Autore e regista del documentario "2011 - Lampedusa nell'anno della primavera araba", direttore della fotografia del documentario "Fino all'ultima spiaggia" e regista del documentario "Uomo". Ideatore e fondatore di Mediterraneo Cronaca, realizza la testata nel 2017 coinvolgendo nel tempo un gruppo di autori di elevata caratura professionale per offrire ai lettori notizie ed analisi di pregio ed indipendenti. Crede nel diritto all'informazione e nel dovere di offrire una informazione neutrale, obiettiva, senza padroni.

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