Si è dimesso Totò Riina

Editoriale di Mauro Seminara

C’era una volta Totò Riina, poi è morto e vissero tutti felici e contenti. Si potrebbe al limite aggiungere qualcosa per appagare anche i superstiziosi: Totò Riina è morto un venerdì 17. Per il resto, possiamo solo prepararci ad una intera giornata di inutili commenti sui social. La parola d’ordine del giorno, o il tag, se preferite, sarà Totò Riina. Libero sfogo dunque a tutti quelli che oggi saranno degli eroi e metteranno il piede sulla belva per una foto in stile safari. Persone che vomiteranno odio e maledizioni, ma che oggi stesso faranno finta di non vedere qualcosa e si guarderanno bene dal denunciare qualcuno. Oggi tutti spavaldi contro la mafia di Totò Riina credendo che tanto questa non c’è più e quindi, almeno digitando idiozie dai propri smartphone, nessuno potrà desiderare vendetta. Ieri però andava in scena qualcosa di diverso che ai più non sarà convenuto cogliere: ad Ostia, durante la manifestazione per la libertà di stampa che vorrebbe così liberare le testate dal rischio di poter prendere testate, venivano intervistate persone che difendevano il clan Spada. Perché ad Ostia, secondo l’opinione della classe meno abbiente, gli Spada sopperivano alla mancanza dello Stato. Nulla di nuovo all’orizzonte. Lo Stato italiano non c’è. Il concetto di welfare in Italia non è pervenuto. Chi era indietro è rimasto indietro e chi non lo era ci si sta adesso ritrovando. Servizi per il cittadino non ce ne sono perché con le tasse che questi pagano ci si devono fare cose che questi non sanno e non possono capire; e certe volte neanche i più eruditi in materia finanziaria riescono a comprenderlo. Gli Spada offrivano servizi gratuiti a chi ripagava con riconoscenza, non conoscendo alcuna sorgente alternativa di aiuto e assistenza.
In Sicilia, fino a qualche anno addietro, era opinione diffusa che la mafia, Cosa Nostra, fosse uno Stato alternativo molto più efficiente di quello legittimo. In Sicilia infatti non si può dire che i piccoli imprenditori, spesso abusivi, evadevano le tasse. Non esattamente. In Sicilia c’era l’opzione Stato o Cosa Nostra. Si sceglieva cioè se pagare uno Stato che, percezione diffusa, non offriva in cambio alcun servizio, oppure pagare quella tassa locale definita “pizzo” che offriva – nell’illusione popolare – in cambio sicurezza e protezione. Questa semplice e facile logica funziona ancora. Funziona sempre. L’accesso ai servizi sociali è complesso e fatto di burocrazia, verifiche e lunghe attese. Se il clan Spada non chiede di riempire tante incomprensibili scartoffie per concedere una iscrizione gratuita nella propria palestra ai figli di chi una palestra o una scuola calcio non se la può permettere, il clan Spada ha già vinto sullo Stato e quella famiglia sarà riconoscente al clan e non allo Stato. Se per di più il clan incute timore molto più dello Stato, perché con lo Stato puoi sbagliare e con il clan se sbagli paghi, ecco che il gioco è fatto. In Sicilia, malgrado il tempo delle stragi e la strategia della tensione abbia infuso paura nei siciliani che iniziarono così a prendere le distanze dalla mafia, che iniziarono a comprendere che tanto onore in Cosa Nostra non c’era, che questa era capace di uccidere il proprio nemico insieme a qualunque malcapitato, che la leggenda degli “uomini d’onore” era niente più che una frottola, in quelle fasce sociali deboli in cui l’ignoranza regna sovrana oggi sarà un giorno di lutto. Oggi in molti, più di quanti si possa pensare, piangeranno la scomparsa di Totò Riina.
Il boss stragista corleonese, quel “capo dei capi” leggendario reso perfino un mancato Robin Hood da una omonima fiction, si è spento dopo cinque giorni di coma farmacologico indotto. Ma i numeri che identificano “Totò u curtu”, quelli rilevanti, sono altri. Totò Riina, la belva, è stato arrestato nel 1993 dopo 24 anni di latitanza protetta. Il capo di Cosa Nostra – non sappiamo fino a quando lo è stato – è morto questa notte, a qualche ora dalla fine del suo compleanno, dopo 24 anni di carcere. Quarantotto anni dei quali 24 di latitanza e 24 di carcere. Per i primi è stato pacificamente coperto nella sua latitanza da chi certo non lavorava per lo Stato, malgrado fosse lo Stato a pagare lo stipendio. La mancata perquisizione della sfarzosa villa di Palermo dopo l’arresto è una inezia in confronto alla più cruda e triste verità sui 24 anni di latitanza del boss. Totò Riina viveva in quella stessa villa milionaria in cui rincasava la moglie, ogni giorno, dopo aver finito l’orario delle lezioni nella vicina scuola in cui insegnava. Mai la signora Bagarella in Riina è stata pedinata. Mai la sorella di quel sanguinario boss che era Leoluca Bagarella, moglie del superlatitante Totò Riina, il capo dei capi, il mandante della “mattanza”, è stata controllata. Nessuno si era mai accorto che la maestra Bagarella viveva in una villa il cui valore superava quello dell’intero istituto scolastico in cui insegnava. Mai, nessuno, ha pensato che per trovare i latitanti Riina e Bagarella bisognava forse tenere sotto controllo l’incensurata e mite signora Bagarella in Riina. Che strano! Se lo avessero fatto non avrebbero trovato indizi su dove trascorreva la propria latitanza Totò Riina, avrebbero trovato proprio Totò Riina.
Paese meraviglioso l’Italia. Un Paese in cui nessuno cede mai il posto. In Italia nessuno si dimette. In Italia non è necessario dimettersi. Tanto, nessuno chiederà mai le dimissioni di nessuno. Totò Riina si è dimesso, questa notte, a 87 anni. Ma solo per morte sopraggiunta. Altrimenti avrebbe comunque preteso di essere il capo dei capi. Illusione che a tutti avrebbe fatto comodo. Anche ai boss che vedevano al sicuro, con 26 ergastoli sulle spalle, il capro espiatorio di tutto. Perché mai qualcuno avrebbe dovuto dire “Ehi, guardate che io sono qui! Quello ormai non conta più nulla! Dovete dare la caccia a me!”? Non si è mai dimesso, anzi, si è sempre difeso, il comandante dei Ross che ha mancato di perquisire il covo di Riina dopo l’arresto e non lo ha fatto neanche tenere sotto controllo: perché nessun magistrato gli ha esplicitato l’ordine, quindi non è colpa sua. Aveva tante cose a cui pensare e nessuno gli aveva fatto notare ciò che l’esperienza gli avrebbe dovuto suggerire, vista la luminosa carriera prima e dopo gli eventi in questione. Chi si dimette in Italia è uno stolto. Lo dimostra oggi Silvio Berlusconi che, sopravvivendo a Totò Riina, 24 anni dopo l’arresto del boss e la costituzione di Forza Italia torna con la rinata Forza Italia a candidarsi leader della coalizione che potrebbe guidare il Paese dalle prossime elezioni. Qualcuno si dovrebbe chiedere come possa un uomo coinvolto in dimostrata corruzione, che ha scontato una pena ai servizi sociali, il cui sodale cofondatore Marcello Dell’Utri si trova in carcere a scontare una pena che lo vede parte coinvolta in rapporti con la mafia, che è stato indicato come riferimento per la mafia nella “seconda Repubblica” e che in Sicilia ha totalizzato il record di 61 sezioni su 61, che di recente viene anche tirato in ballo dal boss Graviano quale possibile mandante delle stragi del 1992, presentare quale leader di una cordata politica che si candida a guidare il Paese dopo aver vinto le elezioni regionali siciliane. Qualcun altro dovrebbe poi rispondere che siamo in Italia, e qui tutto è possibile.
Carlo Tavecchio pare abbia sbagliato tutto e causato un danno miliardario al Paese, ma non intende dimettersi dalla guida della FIGC. Il commissario tecnico da questi designato ha raggiunto il fallimento storico in campo, ma non si è dimesso e non ha rinunciato alla pecunia che prevedeva il contratto valido fino a giugno 2018, quindi è stato esonerato e lo pagheremo fino a giugno. Il precedente presidente del Consiglio dei ministri aveva assicurato dimissioni dalla vita politica qualora avesse perso la partita in cui si stava giocando tutto e sulla quale aveva investito tre anni di mandato a discapito di altre urgenze per il Paese, ma sta ancora alla guida di un partito distrutto chiedendosi come recuperare con quella parte di iscritti che egli stesso ha prima accompagnato alla porta. Perfino il presidente della Repubblica, coinvolto in gravi incidenti diplomatici con registrazioni delle quali ha ordinato la distruzione prima di sollevare il conflitto di attribuzione che tutto sommato gli chiedeva l’interlocutore intercettato, non si è “dimesso” a fine mandato ed ha accettato il primato storico della rielezione. Si, poi si è dimesso. Ma quale era la necessità irrinunciabile della rielezione ancora oggi non trova spiegazione se non nella voluta continuità politica di una presidenza che era arrivata ad ingerenza da Repubblica presidenzialista. In Italia non si dimette il presidente del “inutile carrozzone” che andava soppresso dalla riforma costituzionale. Colui che lo definì inutile dopo averlo guidato, si era dimesso appoggiando la riforma che doveva sopprimere l’ente e dopo il fallimento della riforma ha accettato di tornare alla guida dell’inutile carrozzone. Non si dimette, ma accetta l’incarico chi aveva definito inutile la Commissione d’inchiesta sul sistema bancario e finanziario. L’elenco sarebbe lungo ma anche altrettanto inutile. Oggi si è dimesso Totò Riina, e questo sarà per molti un grave problema. Bisognerà trovare un nuovo capo dei capi da mettere in cima alla bacheca con le foto dei criminali più ricercati al mondo. Quindi è meglio tornare alla retorica per qualche giorno. La narrazione ufficiale utile, con Totò Riina che fece tutto da solo, mandante ed autore delle stragi, della strategia della tensione, della guerra allo Stato, del “papello”, colui che festeggiò alla notizia della buona riuscita della strage di Capaci, della morte di Giovanni Falcone, è quella che qualcuno in questi giorni ha definito in altro ambiente quale politica del prender tempo. Siamo in Italia, e si riuscirà facilmente a prender tempo. Poi, magari qualcuno dimenticherà perfino che Totò Riina è morto e si potrà continuare a fare come se nulla fosse occupandoci soltanto della riunificazione di un partito che dovrebbe arginarne un altro mentre vince quello che nacque mentre morivano i giudici di Palermo nel 1992. Venticinque anni, e non è cambiato proprio nulla.

Informazioni su Mauro Seminara 705 Articoli
Giornalista palermitano, classe '74, cresce professionalmente come fotoreporter e videoreporter maturando sulla cronaca dalla prima linea. Dopo anni di esperienza sul campo passa alla scrittura sentendo l'esigenza di raccontare i fatti in prima persona e senza condizionamenti. Ha collaborato con Il Giornale di Sicilia ed altre testate nazionali per la carta stampata. Negli anni ha lavorato con le agenzie di stampa internazionali Thomson Reuters, Agence France-Press, Associated Press, Ansa; per i telegiornali nazionali Rai, Mediaset, La7, Sky e per vari telegiornali nazionali esteri. Si trasferisce nel 2006 a Lampedusa per seguire il crescente fenomeno migratorio che interessava l'isola pelagica e vi rimane fino al 2020. Per anni documenta la migrazione nel Mediterraneo centrale dal mare, dal cielo e da terra come freelance per le maggiori testate ed agenzie nazionali ed internazionali. Nel 2014 gli viene conferito un riconoscimento per meriti professionali al "Premio di giornalismo Mario Francese". Autore e regista del documentario "2011 - Lampedusa nell'anno della primavera araba", direttore della fotografia del documentario "Fino all'ultima spiaggia" e regista del documentario "Uomo". Ideatore e fondatore di Mediterraneo Cronaca, realizza la testata nel 2017 coinvolgendo nel tempo un gruppo di autori di elevata caratura professionale per offrire ai lettori notizie ed analisi di pregio ed indipendenti. Crede nel diritto all'informazione e nel dovere di offrire una informazione neutrale, obiettiva, senza padroni.

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*